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martedì 31 ottobre 2017

Stazioni di fuga: Sezze.(nuova fuga)

Giunto a questa stazione vuol dire che sto quasi a metà del viaggio verso Roma. Di solito ci si prepara per i posti che si liberano di quelli che scendono a Latina. Oggi non m’importa del posto a sedere, questo finestrino è pulito e mi fa vedere la campagna come quella volta che con mio zio parlammo per tutto il tragitto fino a Roma, con le facce rivolte ai campi che si attraversava. Gli chiedevo di quelle coltivazioni che il treno sfiorava e lui, partendo dalle serre per i pomodori intorno a Fondi e arrivando fino alle distese di vigna dei Castelli, mi raccontò tutto quello che si poteva raccontare a un bambino di sette anni curioso quanto un cucciolo di gatto. Appresi di carciofi e tedeschi, di uva e americani.


E mi raccontava degli orti che era riuscito a creare nei posti più impensabili. Così partì il racconto della sua fuga da Weimar, dove era internato in un campo di lavoro dei nazisti, e di come con gli altri marinai riuscirono a raggiungere il luogo della sepoltura della Principessa Mafalda, ma non prima di avermi raccontato di come lui e Corrado riuscirono a sfamare l’intero campo con le patate coltivate da loro, nella gelida terra tedesca d’allora. I suoi occhi si infiammavano quando parlava dei dettagli della raccolta e di come tutti i compagni di sventura erano felici di mangiare quelle patate che crescevano su quei campi tragici. Della questione principessa Mafalda si soffermò soprattutto per dirmi di come rimase sorpreso e divertito del parrucchino di Pippo Baudo, quando li ospitò a Domenica in come eroi che diedero una degna sepoltura alla figlia del Re. Ricordo di come quel giorno alla tivù sembravano ancora i marinai di quaranta anni prima: fieri e semplici. Comunque, quel giorno sul treno si era proprio infervorato nel vedere la vigna così bella, fitta e curata - sì, era lui che passava da una cosa all’altra durante quel viaggio, non soltanto io che ne scrivo ora - e diceva che la resa era massima con quel tipo di coltivazione, e che i contadini dovevano pensare alla resa, mica solo alla natura. Non capii allora, oggi forse capirei, e comunque i suoi occhi erano elettrici anche di bellezza per quei tappeti verdi, ondulati, che parevano un mare placido e fertile davanti al nostro treno grigio di ferro. Ricordo che una signora sbuffò per i nostri infiniti discorsi e mia cugina romana, che viaggiava con noi, la prese a ridere e disse alla signora che era la prima volta che il bambino viaggiava in treno, e soprattutto che viaggiava insieme al suo zio preferito.
Arrivammo assetati a Termini, e al primo nasone ci facemmo una bevuta che nemmeno in estate dopo la raccolta dei pomodori San Marzano.
   Una sera di pochi anni fa attraversavo solo piazza Indipendenza, con le sue luci gialle e le sparute finestre accese degli uffici che mi aiutavano nello scenografare meglio la malinconia crescente, e pensai a quella lontana giornata in treno con mio zio. Pensavo a quello che avevo perso a non andare più in campagna da lui, di come tutto si interruppe senza preavviso. Arrivarono i sedici anni e tutto cambiò. Da quella piazza passavo per raggiungere la libreria Piave, dove Antonio Pascale ci aspettava il giovedì nel seminterrato, e dove imparai che certe lacrime sono diverse dalle altre e che certi addii scivolano dentro le nostre storie senza nemmeno una scossa, un pianto tempestivo. Quella sera scrissi di un quarantenne in fuga dal suo passato che, dopo aver raschiato il raschiabile alla cultura della sua epoca, alla fine quella sua stessa epoca lo ha preso a schiaffi a furia di realtà. In fondo quell’uomo voleva che continuassero a sembragli soltanto energiche carezze, vestite di ideali presi in prestito dall’epoca precedente, e che continuassero quegli schiaffi di carezze lo stesso a proteggerlo e coccolarlo ancora negli anni a venire: come una affettuosa madre di passaggio.

 Quella sera me tornai a casa col pensiero di quel treno che tagliava la campagna ma che non riusciva a spezzare ancora del tutto il legame profondo e strambo che avevo per quel mio zio contadino. Da quel giorno del ‘77 nella mia testa si è accesa quella possibilità di creare orti nei luoghi a cui mi lego almeno un po’. A volte li creo gli orti, altre volte li immagino soltanto.


domenica 15 ottobre 2017

cosa mi fa stare bene?

Si doveva andare all’Orto botanico, o al mare, e magari passare anche dalla mostra su Anna Magnani. Poi andare a trovare Marco in clinica. Si doveva assaggiare una tregua, col tempo mite intorno. Negli ultimi vent'anni ho fatto molte cose per dovere, ma in verità alcune anche per piacere tutto mio. Poche, se tiro le somme alle soglie dei quarantotto autunni. Quanto camperò ancora? No, non sto esorcizzando nulla, ché mentre lo scrivo già una ruga si ritrae spaventata. Giunto a questo punto, in questa domenica estiva d’ottobre, seduto sotto al Melograno mi concedo il lusso della sincerità appiccicaticcia. Quella senza  fondamenta, senza controprova: come l’arrogante sensazione di sentirsi migliori al cospetto dell’intero mondo tondo.
Ma tu mi vedi? Ecco, se riesci ad immaginarmi seduto là con l'occhio a palla per lo sforzo, e senti pure la voce di mio figlio che ripete Storia alla madre, e il cagnetto dei vicini che abbaia dietro i vetri e il gatto che ronfa beato in poltrona, ecco, allora sono riuscito a tirarti dentro la mia storia, per cinque minuti.  Almeno quella che sfiora questo monitor. E già così staremmo a metà del dibattito sulla questione giornaliera: come raccontarsi, se proprio ce l’abbia indicato un dottore di farlo, eh. Ma ti va davvero di starmi a leggere? A me di farmi leggere, lo ammetto, mi va almeno quanto di passare un weekend a Parigi a dicembre.
Sono stato una settimana senza frequentare i social, poiché nel frattempo avevo da fare molto coi pensieri che erano andati in subbuglio, e col costato indolenzito e molte altre faccende che non credo opportuno dichiarare qui troppo sinceramente. Esiste l’arte dello sparigliare, esiste un limite dove provare a inventare veramente. Esistiamo io e te, ma niente che possa rappresentarci senza cicatrici vere medicate con garze finte: esaltare il senso, e non il consenso di un momento.

In questi giorni non voglio maledire nessuno né voglio arrabbiarmi col tempo, e nemmeno coi cinquestelle: vorrei soltanto riuscire a tradurre a parole quell’incertezza mal trattenuta da quel sedicenne ieri, poco prima che scrivesse tre righe di sé durante il laboratorio. Appariva tutto rosso, tutto bloccato, tutto come uno stare a sentire i rimbombi dei pensieri e delle voci di parenti e degli amici: un coro di persone disastrate che in un attimo magico magari si mettono a cantare il suo pezzo rap preferito, e lui che con la sua felpa comincia a svolazzare con gli occhi umidi, facendo scendere a coriandoli le cose orrende ricevute nel tempo, e scriverne tutto eccitato. Santo cielo, fa che quelle tre righe diventino l’incipit più azzeccato del suo tempo.