L’altra sera ho fatto un colloquio di
lavoro, in un bar, si trattava di assistenza domiciliare. Mentre Giampaolo
spiegava il tipo di mansioni da svolgere, facendolo con sensibilità ma pure con quel
disincanto di chi lavora da anni nello sciagurato mondo del sociale, ascoltavo e dentro di me
risuonavano quegli anni faticosi di quando ci lavoravo, in quel mondo. E i bimbi,
quelli con cui lavoro ora, mi passavano davanti coi loro capricci adorabili, e con
tutte le loro instancabili mutevoli forme di crescita. No, Giampaolo, appari
onesto eppure quello che proponi è vecchio, inutile alla mia storia. Nello
stesso bar del colloquio anni fa stavo con Andrea e altri a discutere sul
contratto capestro che una tale Cooperativa ******* ci aveva rifilato al secondo
colloquio, rimangiandosi quello promesso al
primo: basta, direi basta con questa commedia dei buoni che si accontentano. Un
guizzo di cattiveria ci vorrebbe. Lavoravo in una casa-famiglia a trecento
metri da questo bar. Ci sono rimasto tre anni a fare il topolino-educatore da
laboratorio per gli scienziati-psicologi del telefono *******. Noi a tamponare
l’orrore di storie infantili schiacciate dagli adulti e loro di sopra a gestire
un potere fatto di bontà, di conferenze e di politici da sedurre: sempre in
tiro stavano coi loro stivali taccosi e addosso quei foulard vorticosi come
serpenti. Ma il magone che avevo la domenica sera prima del turno notturno, che
mi trascinavo come una coda di dinosauro sulla Nomentana buia, col pensiero di
mia moglie e mio figlio da soli in quella casa sfiancata sonoramente dai tir
delle cave tiburtine, dico, ma a chi potevo raccontarlo quel benedetto magone?
Di certo non ad Ammaniti-padre in supervisione (tra l’altro, lo riconosco,
l’unico a capire in un’ora di riunione ciò che gli scienziati di prima (quelli taccosi)
non avevano capito di D. in due anni di terapie).
-
Lavora,
questo hai scelto a vent’anni, e ora vai, salva l’umanità intera: bimbi
sfigati, uomini soli, donne distrutte, ragazzi senza giovinezza. Teneri
disabili.
Poi, una volta in casa-famiglia era
tutta una lotta con D. che non voleva dormire ed io a raccontargli storie
sdolcinate con finali tristi che vedevano come protagonista Gigi D’Alessio, il
suo eroe. E la notte su internet a cercare altri lavori, altre fughe, e altri
piaceri inafferrabili che si allungavano fino al mattino.
Mentre il colloquio procedeva con ampie
parentesi sui rischi di lavorare con gli psichiatri, e non con i pazienti psichiatrici,
i miei pensieri sono volati in quella casa umida che protegge una donna sola,
che ride da sola, e pensa da sola, e si incazza (anche) con me, ma sempre da
sola, e vuole recitare fino alla fine una parte triste, trafitta già dalla sua infanzia
di guerra, con la complicità di quel piccolo paese ottuso e splendido che si sta
facendo odiare anche da me adesso. Lei lo fa con un randagismo ironico, al
limite del comico: quando la ascolti non resisti e ridi, poi ti incupisci un
po’, ma intanto hai pure riso di gusto. E non è poco, se consideri la sua
storia, il groviglio che ha in testa, e la rabbia senza freno che sprigiona in
certi pomeriggi estivi. Io lo so, e un giorno ve lo racconterò. Forse.
Mentre sorseggio il caffè, e il colloquio
volge al termine, parliamo di scrittura autobiografica. Poi anche di esperienze
con pazienti psichiatrici, di un dormiente che seguivo (poi suicida) e di sua
madre, che mi rifilava leccornie durante il risveglio patetico e tragico del
suo unico inafferrabile figlio: io e lei in cucina e lui sdraiato in cameretta,
bottiglie di birra accanto al letto. Fumetti. Cicche. Capelli lunghi e sporchi
che schiacciati su quel cuscino mi sembrano una medusa. Lo invoglio a tirarsi
su da quel letto lurido. Poi guardo la madre, lei abbassa lo sguardo e fa un
altro caffè. Mi accorgo che raccontando solitamente
ometto la morte, la pazzia e l’insostenibilità di quegli sguardi tremendi. Di
quegli anni. Uso il presente, illusione per non sentirsi perdente.
Giampaolo, tu sarai un buon
coordinatore, ed io forse non lo sarò mai, pur avendo sfiorato e fatto sfumare
questo status tante volte: ora sono stanco di status, e pronto a mille oscenità
sociali. Come questo mio scrivere così; al corso di scrittura autobiografica,
che durante il colloquio mi hai detto di aver fatto anche tu, ma ahimè lì non
insegnano che il troppo di noi
raccontato può diventare una bolla di sapone per salvarci il passato. Domani io
voglio bucarla quella bolla, e poi leccarmi la liscivia mischiata allo smog che
discende giù dolcemente, come eccitante: per gli anni che ci restano per
combattere e amare.
Coraggio, amico abbi coraggio di
scartavetrare questo imponente passato: poi lasciateci divertire a impiastricciare
le mani nei colori che ci ritroviamo.
“A letto, il bacio”, del 1892. Toulose Henri de Toulouse-Lautrec |
Ps
Sì, sto cercando lavoro da integrare
al mio part-time: tra quei milioni di lettori di questo blog se ce ne fosse uno
interessato a offrirmene, sappia che metto a disposizione tutta la fantasia che
ho. Per le referenze chiedete ad A. a E. a I. e a O.
Ps2
Durante l’arco di tempo che ho scritto questo pezzo non ho fatto male a
nessuno. Ho fatto l’amore. Ascoltato Fiumani e poi Beethoven. Annaffiato le piante del giardino. Ho letto al piccolo I ragazzi della via pal, e visto le foto che il grande ha fatto a Romics.
Ho inviato decine di messaggi, e navigato un po’ disperato e un po' contento su internet. Ho
telefonato a mia madre tutti i giorni. E pensavo ogni mattina a come dar retta
a Kurt Vonnegut: Quando siete felici, fateci caso.
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