Non ho ancora
capito. Sono imperfetto, e provo terrore davanti alla perfezione. Lo faccio per
arrendermi all’istante, stringendomi nelle spalle e mettendo le mani in tasca, davanti
alle cose che accadono nel giardino, nel mondo accanto. Ché al mondo grande,
quello alto e riservato ai pochi eletti, ci pensate già voi grandi uomini,
belle donne e presentatori tivvù. Ascolto l’ultimo dei Diaframma e penso a come
io non sia più obiettivo neanche davanti a una canzone. Leggo Pascale e succede
più o meno la stessa cosa. Seguo il dibattito sul libro di Piccolo, leggendone
un pezzettino, e comincio a credere che in fondo finora ho soltanto assolto il
compitino che la sinistra mi ha ordinato di fare, sin da quando ero ragazzino.
Un ricatto poetico, in cui negli anni sono precipitato con piacere incostante.
Poi sento i complimenti di Francesco De Gregori e della Elena Stancanelli al nuovo film di Checco Zalone. E mo’ basta! Datemi il tempo per attraversare la crisi, di evitare il
trauma tra i parenti. Già a vent’anni Ettore mi diceva, mentre rientravo da
Roma dalla festa dell’Unità, che sembravo un kit di usi e tic della sinistra
d’allora. Ho sempre subito una pressione culturale, a causa del vuoto
precedente: è vero che a sedici anni con iniziativa personale leggevo
Repubblica e Breat Easton Ellis, utilizzando solo il fiuto di un affamato di
vita. Ma non è bastato, forse.
Ora ci resto
male. Solo e senza kit cerco di cavare pensieri autentici e così facendo è come
se usassi una cesoia invisibile: restano in piedi poche persone, solo alcuni
ambienti. Pochi cantanti e qualche scrittore. Uno zio. Una casetta incastonata
nel sogno. I bimbi. Mia moglie. Ci resto male.
Caro Andrea, anch'io mi
sono formato sulle imperfezioni e mi ostino a coltivare uno stile immediato, ma so, si lo
so, che se una canzone non regge all’ascolto un motivo ci sarà pure. E ancora ci
resto male.
Affogo ogni mio
dubbio nella mia stupenda vasca da bagno; e le paperelle gialle e perfide mi
spruzzano acqua negli occhi lucidi.
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