Mentre finivo di leggere Guarigione,
proprio quando l’io narrante scopre di non essere lui, né la sua storia, la
causa della malattia ereditaria del figlio, in quell’istante mio figlio novenne
sbatte con la schiena al rubinetto della vasca. Piange e faccio i gradini tre
alla volta per raggiungerlo. No, non credo ai pensieri magici, e cose del
genere, no; in quel momento, osservando la sua ferita, mi è solo venuta voglia
di abbracciarlo più forte del solito, e disinfettargliela per bene. Certi
libri, quando sono scritti con rigore letterario, e hanno una forza intrinseca nelle
parole usate, ti spingono a riflettere, ad agire, ma con discrezione, e magari
riuscire ad avere un passo nuovo verso il mondo. Almeno nell’immediato, e uno poi
spera che duri nel tempo. In questo libro, Cristiano De Majo, con tutta la
materia incandescente che tratta, avrebbe potuto precipitare nell’emotività,
nell’urlo acchiappa lettori, invece, pur raccontando di malattie, morti,
rapporti conflittuali coi genitori e con la propria generazione, riesce a
mantenersi in equilibrio tra la passione e la ragione. Racconta, non dispera.
Da qualche tempo tendo a una quiete,
a un fermo biologico e riflessivo sul mio tredicesimo anno di paternità, e
leggendo questa storia ho intravisto alcuni appigli allo scopo: la tenacia, e
le infinite attese della crescita, che di tanto in tanto lasciamo sfociare in
oceani d’amore. L’amore complesso e trasparente per i figli. De Majo narra di
un percorso nato da un suo tumore ai testicoli, risolto, passando dalla
malattia alla pelle a uno dei due gemelli nati dalla sua storia con Laura, fino
ad arrivare a una quasi guarigione, perlomeno a una convivenza con i suoi
residui. Nel mezzo ci sono traslochi, fallimenti esistenziali di vecchi amici,
ma anche esperienze lavorative fatte un po’ controvoglia che alimentano,
contaminano, e determinano il passaggio concreto, doloroso e carico d’amore
verso la paternità. Questo non prima di aver deciso di ascoltare la storia di
un suo vecchio amico, morto in un incidente stradale, raccontata dai genitori del
ragazzo, che intanto si sono rimessi insieme dopo il lutto: questo racconto nel
racconto è struggente. Nella vecchia cameretta del vecchio amico vive nel
frattempo una ragazza, figlia di una badante di un’anziana di famiglia, che
partorisce una bimba; questo passo del racconto mi è sembrato una cosa tenera,
cruciale, e forse decisiva per il protagonista: lo slancio verso un pensiero ancora più umano per le cose della vita.
Gli occhi dell’autore cercano di giudicare il meno possibile, pur facendoci
partecipi della sua opinione incerta su temi come la solidarietà,
l’immigrazione, il mondo letterario, le relazioni famigliari e amicali, che in
parte riesce a sbrogliare, pagina dopo pagina, ma soltanto dopo averla
attraversata con l’esperienza diretta. Tra inciampi e sguardi verso la sua
realtà.
Ci sono pagine su Napoli che pare
trattengano sentimenti in conflitto tra loro, eppure, evitando il troppo già
detto, ne restituisce nitide immagini della sua potenza contraddittoria e vitale.
La racconta, non la celebra né demonizza. A un certo punto fa specchiare la sua
sonnolenta città natale con la modernità di Milano, e sono pagine memorabili di
analisi e tormento di un giovane adulto alla ricerca di un luogo dove vivere meglio: il rimbalzo emotivo tra una
voglia di fuga e la stabilità necessaria. Quelle sue sigarette ancora da
accendere, appena spente, o fumate con voluttà, me lo fanno immaginare nel suo
camminare nervoso, acceso da pensieri che disegnano futuri colorati nell’aria.
Prima di Guarigione avevo letto Lacci di Starnone, e a me, che so poco di libri ma forse ne intuisco subito la potenza,
sono sembrate parenti le due storie raccontate. Una finisce dentro l’altra, una
scaccia l’angoscia dalle pagine dell’altra: una spiega meglio l’altra. Almeno
per me, che dai libri voglio sempre una scossa, un intervallo sentimentale
dalla vita che scorre, per poi starci giorni e notti con la testa dentro, che
la vita, quelle che continua a scorrere implacabile, poi mi chiede il conto:
cene saltate, carezze non date, telefonate mancate. Intanto me ne sto in
poltrona, come patibolo di maschio distratto, e il libro sopra le gambe assomiglia
a una bomba inesplosa: vedo già i frammenti caldi dei miei pensieri spazzati
via al mattino.
Chiudo suggerendo di leggere a tutti Guarigione,
ma in particolare ai miei coetanei quarantenni, o giù di lì, così, tanto per
avere giusto un pensiero in più durante
questa nostra splendida convalescenza generazionale. E poi fatemi sapere se
nella testa un formicolio non alimenta anche a voi quel desiderio di riordinare
al meglio, senza paura né troppa malinconia, le nostre storie un po’ allegramente
alla deriva.
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