“Non ricordo quasi mai niente. Il
finale dei libri, dei film; di tutte le poesie che mi son piaciute. Della
prima parola (parola) detta dal primo figlio, o della prima ferita col sangue
del piccolo. Non ricordo della prima volta che le sono venuto dentro. Della
faccia di mio padre morto. Del primo ricovero di mia madre. In realtà ora
ricordo, di questi interminabili ricordi, solo i dettagli sentimentali rimasti
appiccicati alla mente. E poco più.” (Memorio Carpito, 1970-2011)
Affaticato dalla nottata nervosa e priva
di senso – il senso che serve per addormentarci sereni la sera - decido di uscire
e percorrere tutto il perimetro del mio quartiere. Abito qui da nove anni. E’
un quartiere rettangolare, concepito rutelliano ma veltroniano di nascita, che
alle due estremità est-ovest ha due ferri di cavallo di strade: ai lati la
campagna romana arrabbiata. Più che una borgata pare una penisola, ma senza
lungomare.
Sono le sette del mattino. Faccio i
primi venti passi e mi blocco, prima della fermata del bus, paralizzato
dall’eventualità che arrivino i maremmani: spesso dall’auto li vedo gironzolare
liberi coi loro cinquanta chili per le strade deserte. Così lo sguardo si stacca
e si alza fino a osservarmi laggiù come dentro a un diorama. La gamba sinistra
avanti, di fronte c'è una coraggiosa donna ginnica. I figli stanno là con gli occhi
appena aperti. Mia moglie minuscola, infreddolita e con un pensiero che ne
contiene altri mille, sta lì a riflettere nel letto. Io resto immobile, come tutte
le volte in cui ho lasciato scegliere agli altri, o al caso.
Sblocco l’immagine e comincio il giro
nevroticamente programmato, poco prima nel letto insonne. Arrivo davanti a un
passaggio mattonato, che apre in due un terreno di erbacce fino all’ingresso di
un palazzo. Proprio qui un dirigente del comune di Roma disse a una signora del Comitato, dopo che gli chiedemmo che almeno un passaggio decente andava fatto:
signo’, mica ha comprato casa a piazza Navona, eh! Questa risposta l’abbiamo
digerita come sudditi informati, come coglioni. In fondo me la sono meritata, visto
che all’epoca bevevo tutto quello che c’era da bere nell’aria
prepost-comunista, per tenere duro, da neo-padre, davanti allo sgretolamento di
ogni tipo di credenza, convinzione, che avevo maturato negli anni della militanza
ideologica, sentimentale, dentro a un mondo (troppo grande per me) che di certo
non coincideva precisamente col mio. E dillo cazzo! Sì, dovevi dirlo anche
allora ai tuoi amici mentre passavano le giornate a citare film anni settanta, o
a scopare le ragazze degli altri, o ad annunciare catastrofi mondiali durante
gli intervalli delle partite dei mondiali. Avresti dovuto dirgliene quattro su
chi eri veramente, invece di arrenderti in democratici ascolti di loro
questioncelle ancora adolescenziali. Tu avevi la guerra nella testa, e loro
giocavano coi soldatini. E vincevano quasi sempre loro. Oggi alcuni di loro
stanno in calde e comode case ereditate o comprate bene, e io resto indebitato,
serenamente indebitato, e con una casa a cui devo già rifare le fogne. Dillo
cazzo che tu volevi stare (anche) per i fatti tuoi, con i tuoi film di Moretti,
e con quelle canzoni che piacevano solo a te, quei libri di scrittori
israeliani e, il vero motore anti-suicidio: con quella tua favolosa e invidiabile
voglia di innamorarti di tutto. Avercelo avuto un grammo di coraggio, l’altro
ieri, per scegliere fino in fondo la tua perfetta
solitudine dentro alla moltitudine del mondo.
All’epoca loro allegramente faticavano
a fare i giovani e tu timido col tuo vecchio groppo sempre in gola, con le primordiali
paure nelle tasche, e oceani di ansie negli occhi, restavi fermo ad aspettare
che ti chiedessero: ma la tua storia come sta?
Ero ripartito per il quartiere, già,
ma forse è meglio osservare il diorama dall’alto e perdonare i vecchi amici, le
loro selvagge certezze, e le loro misere necessità, che stanotte sono anche un
po’ le mie. E dai, non cedere più al rancore; invece rivesti questo tempo che ti
resta di morbidi decori luminosi, e che siano soltanto un po’ più veri di ieri,
e che sfiorando appena quel lembo d’organo invisibile che pompa che è una
meraviglia, poi producano un soffio di felicità urbana davanti alla tua soglia
di domani.
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