Sta in macchina dentro la solita strada
sconnessa della mattina, a un tratto un lampo del passato, una scheggia che
scaglia il cuore. L’insonnia è già alle spalle e la sveglia suona proprio in
quel momento nella sua testa, come pugnale già entrato ormai nel suo petto:
anni fa lo stesso pugnale in strade diverse ne aveva combinate delle belle. Vuole
fermarsi ma la strada è stretta; il bordo si confonde alle sterpaglie solcate
da donne e passeggini mezzi rotti. Devia nello slargo della stazioncina. E’ già
piegato per metà sullo sterzo, finisce la corsa contro le inferriate che
proteggono l’enorme palazzo vetrato degli industriali romani. Pah! Pah! E tutto
sparisce, tutto sprofonda nel sottoscala delle esperienze perse. Non vuole, non
vuole soffrire più per quel pugnale sporco.
Davanti ai suoi occhi il panico
prende la forma di tre zingarelle che si parano davanti ai finestrini. Lo
fissano spaventate. Lui rimanda vergogna. La scena dura venti secondi
abbondanti, tutto scorre accanto. Aprono gli sportelli, le tre entrano. Lui
trema. Quella che si è seduta accanto gli prende il mento e gli fa fare una
rotazione sufficiente per farsi guardare negli occhi. Lui cede un po’ rigido. Trema
ancora di più. Le due dietro appoggiano la faccia sui sedili e respirano forte.
Uno stormo di uccelli taglia il cielo ancora celestino: sono un’infinità, e
fanno virare lo sguardo delle quattro persone nella macchina. Dieci secondi di
pace. Poi un braccio preme un altro braccio, una guancia si ritira e cerca
aria. Una donna dentro una mini nera guarda la scena e ride volgare. Già nella
sua testa un racconto per le colleghe svogliate. Già è pronto con trama,
personaggi e finale. Una sentenza aleggia a pochi passi dal raccordo appena esploso
di macchine. Le tre scendono di corsa appena sentono il rumore del treno. Nel
farlo - la più giovane - lascia cadere un lungo foulard verde sul sedile. Lui
guarda solo quello, e non pensa ad altro. Poi si addormenta sereno in questo
piazzale già violato da auto veloci.
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