Ieri mentre stavo in macchina passando dal Mandrione pensavo a mio
figlio che intanto stava in fila per il firma copie di Salmo, nel negozio
Discoteca laziale. Io lì ci andavo a sentire dischi, ogni tanto a comprarli,
poiché accanto c’era La casa dei diritti sociali che bazzicavo come
tirocinante. L’Esquilino accoglieva tutti i nostri beati turbamenti di inizi
anni 90. Sì, pensavo a mio figlio e ai suoi turbamenti: papà ma te pare che si
vuole fare una foto con me. E nei suoi occhi vedo quella vergogna che sempre i
figli hanno per i genitori: non sono più piccolo, dico parolacce, canto cose
toste e rifletto sul perché mi tocca vivere nell’era dei grillini e dei salvini
e tu a dirmi solo ‘ste cose sceme. Già, e dopo mentre passo davanti alla
Caritas a Ponte Casilino ricordo di quando facevo il tirocinio in quel centro
di prima accoglienza minori. Il primo giorno mi diedero le chiavi di una 127
rossa e ci misero dentro due ragazzine rom che si erano graffiate le vene dei
polsi: ti prego portale al primo pronto soccorso. Mi ritrovai all’ospedale
Pertini per miracolo: per strada ‘ste due mattarelle maledicevano tutti gli
automobilisti che incrociavamo, ed io a scusarmi con una specie di lingua dei
segni da tangenziale est. Ieri invece ero orgoglioso di andare a prendere mio
figlio, di riportarlo a casa dopo che aveva preso 6 a diritto - sto a gode, mi
aveva messaggiato – e poi alle 14.40 era partito da solo dall’incrocio di San Basilio
per raggiungere Termini. Come facevo un tempo anch’io: prendevo un treno e cambiavo
aria, cercavo una scena di vita più spensierata. Una volta che arrivo in via
Turati di colpo mi ricordo quando, quindicenne anch’io, in quella stessa via mi
ritrovai davanti a una casa dove affittavano una stanza e mi spaventai come un
pettirosso quando sull’uscio comparve un marchettaro in mutande. Mi ero
iscritto al CineTv, e tutti giorni fare 130 km era una follia almeno quanto quella
di riuscire nell’impresa di continuare lì gli studi, in quel tempo matto per
me. Mi ritirai a dicembre, così cominciai la mia fase mezza punk solitaria, poco
prima di andare via per sempre. Ieri una volta arrivato in negozio ho visto mio
figlio che spulciava ciddì da prendere e mi sono emozionato. Nello scaffale poco
più in là tutto l’indie-rock anni 90 era in svendita.
Durante il viaggio verso casa alla radio c’era Gipi che parlava del suo
ultimo libro, La terra dei figli. Mio figlio fremeva per sentire il ciddì
nuovo, ma intanto stava eccitato su Instagram a dispensare mi piace sull’evento
appena vissuto. Gipi diceva cose interessanti, oneste come al solito. A un
certo punto mentre origliavo – scrittori non esagerate con lo spoileraggio, ché
m’innervosisco – capto che parla del personaggio padre del libro, che aveva
rinunciato a far conoscere alcune parole ai figli per proteggerli, salvarli e
proiettarli verso un futuro migliore. Ecco, io a quel punto mi sentivo scemo ad
ascoltare Gipi mentre mio figlio scalpitava col ciddì tra le gambe. Di scatto stavo
per infilarlo nel lettore ma, d’un tratto, una luce bianca: basta questo bla
bla bla sul fatto che siamo genitori adolescenti inquieti, basta, io non lo
sono del tutto, altrimenti non avrei continuato a sgobbare in un posto dove
guadagno appena 1100 euro al mese. No, io sono un genitore che vive nel 2016,
con una tarda giovinezza spensierata di tormenti e speranze alle spalle, quindi
ora, a 46 anni, tecnicamente sono ancora un non vecchio. Mio padre a 46 anni
aveva vent’anni di fabbrica sulle spalle e nessun libro letto sulla coscienza,
ma gli volevo bene lo stesso e da lui pretendevo che mi portasse a vedere le
partite, non di certo a sentire Vasco Rossi. Oggi siamo in un altro mondo, oggi
così come nel libro Eccomi di Safran Foer siamo tutti più vulnerabili, tutti
più appesi al presente, ma volendo potremmo essere spensierati ancora, volendo
io potrei mollare zavorre e zizzanie e frequentare il mondo che vorrei. Volendo
potrei godermi i figli che vivono come figli, e fare al meglio il padre che
vive.
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