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mercoledì 21 settembre 2011

Ti vedo



Lo vedo che cammina spaesato per le strade del mio quartiere, in cerca di un lungomare da percorrere. Eccolo seduto sul divano con le gambe strette tra i miei figli: vuole dargli il massimo dello spazio. Adesso ride a una mia battuta così tanto da far vedere il suo dente piombato d’argento. Si ferma, mi guarda, e non dice una parola. Nessuna parola per me. Perché papà?
Eppure siamo stati insieme tanto tempo. Eppure il tempo era il nostro tempo. Gli anni settanta terribili e belli ci sfioravano appena. Stiamo faccia a faccia a giocare a briscola, come tavolino una sedia di sbieco, fuori un temporale che prova a spaccare le persiane. Gli altri ognuno per conto loro, noi stremati arriviamo fino a stare con le ginocchia piegate in su, dentro a un letto enorme di lana, e i tuoi racconti che disegnavano la stanza. L’altra notte ti ho sognato ricoverato. Io non venivo a trovarti, e me ne stavo pieno di fatti miei dentro a un ritmo di una città che tu conoscevi appena. Ti eri fermato ad Anzio negli anni cinquanta, con le barche del nonno a tirar su alici brillanti, da vendere alle massaie affamate. Così sei sbarcato dalla tua guerra: per un futuro di comodità lavoravi senza pietà. Per la tua giovinezza che s’impigliava dentro reti vecchie di mare, che erano ancora di tuo padre e non sarebbero mai state le tue. Le mie non di certo, ché al mare ho voltato le spalle a vent’anni per città affossate in conche gigantesche di vita. A cavallo di un effimero post-moderno mi dilungavo -naif d’inerzia- in visioni di futuri immaginati. Mi dovevo salvare. Mi dovevo allontanare dal nulla che sentivo intorno; che poi era e resta un rimbombare eterno che sguazza negli stagni delle adolescenze allungate dai guai.
Ma chissenefrega! Ora sei alla fermata dell’autobus con le gambe tozze di muscoli che poggiano sulla ringhiera arrugginita di sale e petrolio. Di colpo sei dietro la rete metallica del campo di calcio che finiva in mare: la porta stava a cinque metri dagli scogli dei ratti. Tu stai lì che mi saluti con gli occhi pieni, aspetti paziente, la mia decisiva cannonata contro la porta avversaria.

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