Ho appena finito di vedere “La nostra vita” di Luchetti. Il dramma nel film emerge utilizzando la direzione sbagliata
che prende il protagonista – prima operaio edile poi imprenditore in subappalto -
dopo la morte, di parto, della moglie. Un’ostinata volontà di fare un passo
avanti per scacciare il lutto e ripartire dall’illegalità, dai soldi che servono
per continuare a immaginare le vacanze in costa smeralda. Intanto servono a
coprire il vuoto di sentimenti che i figli vivono in quella casa. Poi segue una
narrazione di ruggine e dolore.
Sento cinismo nell’aria stasera. Già al parco,
mentre i miei figli giocavano a pallone insieme a una cricca di ragazzetti
sboccati e pallonari incalliti, mi chiedevo il limite tra le ragazzate e
l’abisso verso l’indifferenza. Li osservavo da lontano, da una panchina di
fronte al tramonto romano, in fondo vedevo pure il cupolone come in un
plastico, e pensavo alla violenza che non vediamo quasi mai ma che percepiamo
quasi sempre. Agli infiniti linciaggi che accadono ogni notte negli angoli. Al
buio. E pure sappiamo, e la coscienza ribolle impaziente come quando l’incubo
si veste di paure d’infanzia, in stanze minuscole di poster e porte chiuse.
Allora vedo questa rabbia che prende
forma di cartacce sparse al parco. Di figli dolci in braccio a madri glaciali. Macchine
lucidate con assassini a bordo. Lampioni spenti uno si e l’altro no. Curve di
erbacce mai tagliate. Una donna africana avanza in compagnia delle sue pesanti buste
della spesa. Del mio silenzio dignitoso contro i sorrisi sperperati in luoghi
sterili.
Le telefonate fatte per noia. Gli sms
sbagliati di tono.
Odiavo l’indifferenza di mio fratello
mentre amavo la tua dolcezza futura.
Nessun commento:
Posta un commento