1.
Passare una serata davanti a uno schermo in riva al mare, dove
proiettano un film su Nick Cave, stelle cadenti che si spengono in acqua, poi alla fine, mentre ascolto Ettore pronunciare mondi lontani, lascio entrare beatamente il film nella vena del mio entusiasmo. Ma arrivo a casa e penso, con l’insonnia addosso, a quel ragazzo che
cade e muore sulla scogliera: postilla tragica che rimescola la visione nella mia mente.
L’indomani andare a una sagra all’oratorio per mangiare pesce fritto a cinque euro, vino rosso incluso, e poi digerire
giocando a basket, sudatissimo, tra ragazzini e madri. Ecco la vita che non ha
un senso e rotola via in queste notti d’agosto, paralizzato dai pochi soldi e con
la canonica voglia di cambiare tutto. Mai niente, davvero.
Questi miei giorni estivi: elencare fatti lontani, nominare persone preistoriche,
tuffarsi in mare di pomeriggio, stare su twitter come un bimbo, leggere
furiosamente. Organizzare una cena tra vecchi amici dove, mentre gli uomini un
po’ stempiati parlano di calciomercato e delle loro scappatelle su skysport
nelle sere d’inverno, le mamme scambiano pareri febbrili per l’imminente inizio
della scuola, altri un po’ sparsi dietro cespugli si infervorano parlando di progetti
che realizzeranno a settembre. Io senza progetti e senza sky mi stacco da terra
e osservo queste persone un tempo a me familiari (e ora?), e mi aiuta, per capirci qualcosa in più, questa luce
fioca alogena: poi scendo e ho una
parola per ogni loro desiderio. Intanto parlo con P. delle presentazioni di
libri a cui ho assistito durante l’anno, come se fosse la mia vita vera. La
mia vita vera è dentro questo file, negli occhi che mi ritrovo quando resto da solo e mi faccio spaventare dal futuro. O nel sudore appiccicoso di quando
tento di potare gli ulivi, e sta anche nella delusione di vedere affogare proposte
di lavoro dentro una solitaria mail estiva. La vita vera sta ora nei desideri
incessanti che non riesco a raccontarvi: colpa di quell’odore acre che sa di rassegnazione. Questo sono. Sta pure nelle dormite napoleoniche, coi sorrisi dei
figli al risveglio o coi loro benedetti e rari capricci. Sta nella devozione a una
moglie sognante e umorale che cerca l’agognata (meritata) pace nei fortini
altrui, e mannaggia alle famiglie-famiglie, queste famiglie che si risucchiano le nostre battaglie di crescita. La vita vera sta nei
pensieri per una madre sempre più rimpicciolita nella sua storia di vestiti
cascanti, a fiori, che delira dolcemente già dal primo caffè. Sullo sfondo ci
sono i messaggini evocativi degli amici, a volte tranchant o elusivi e spesso
lontani come quelle isole che neppure quest’anno riusciamo a visitare: siete troppo
cari voi di Laziomar.
Ho scritto un racconto di morti e resurrezioni, un tentativo di far
gemmare storie che stanno nell’aria di questo Golfo, che ho trattenuto nei miei
pensieri a forma di gatto, negli anni di silenzio. Ora non so cosa farne di questo racconto, ma chi l’ha letto dice:
meraviglia! (ma senza immagini dice tutto e bene, nello stesso magnifico
istante).
Fa caldo per tutti. Scappiamo tutti. Scriviamo
tutti. Spettegoliamo tutti. Ma nessuno vuole apparecchiare coi bicchieri di cristallo queste
serate estive. A nessuno piace la solitudine degli altri. Tutti aspettano. E usano tristi bicchieri di plastica.
2.
Stiamo andando da tua nonna, in lontananza fulmini che si scagliano in
mare come tre milioni di anni fa, e io ti mostro lo spavento senza camuffarlo con
ansie stagionali. Ripariamo in un bar, avviso l’amico, accorso per donarmi
L’eco di uno sparo. Lui stava sotto e dentro quella ‘tempesta”. Ripartiamo e troviamo
un ingorgo che blocca le due strade: con una virata decido di percorrere la
strada panoramica che attraversa le frazioni. Il cielo è di nuovo terso, si
vede Ischia, le torri in successioni e noi due dentro l’auto che sfreccia sulle
facce delle vecchine nere. Alla radio ascoltiamo l’ultima canzone di Freddy
Mercury, poi i Beatles, parliamo di Aids e dei sentimenti che si appiccicano
per sempre a certe canzoni. Ti agiti, senti nausea e me la mostri senza
disperare. Chiacchieriamo, e penso a quella poesia di Carver, e il cielo mi
rapisce i polmoni.
Comicamente, non sapendo dove buttare
l’immondizia, riparo in un ingresso di una banca e la butto nei loro enormi secchioni
gialli. Ridiamo all’idea che mi becchino con le telecamere del bancomat.
Entriamo nel budello che divide i vicoli, guardiamo una vetrina di scarpe, ma
io guardo anche il tuo profilo, i tuoi lineamenti che pare stiano lì per lì per
far esplodere la tua sognante personalità. Arriviamo da mia zia novantatreenne
e lì, seduta come una ragazzina, c’è anche tua nonna. Poi cugine, e neonati che
non conosco. Si parla di abitudini in città, e si percepisce una cordiale estraneità
coltivata in questi ultimi trent’anni, tra me e loro. Mio zio è morto da circa un
anno e la sua assenza la colmiamo parlando tutti contemporaneamente. Usciamo.
Salendo le “Scale dei scalzi” scatto una foto e ti racconto della direttrice
suicida e della sua leggenda che assieme ai miei compagnetti violammo arrivando
a quel terzo piano inagibile, impenetrabile dagli altri. Tu sorridi, assorbi la
mia ennesima storia e cammini ancora più veloce di me.
3.
In questi giorni di mare e campagna, di nuvole e chiacchiere, ho capito
che il mio fallimento in questo posto di mare è frutto di una vecchia paura:
evitare i conflitti e stare nel quieto vivere individuale. Anche se poi litigo con un erborista mezzo stregone che con un pendolo in una mano, e l'altra che tiene la mia, dice: non puoi mangiare i fichi d'india, sono negativi per te (ma va va, io me li mangio eccome). L'Antonio Pascale che è in me lo ha divorato in un'ora scarsa di argomentazioni ragionevoli. Peccato però che mia moglie, sconsolata ma d'accordo con me, dice che sembravo un po' Sgarbi mentre lo attaccavo per le sue scemenze grilline e terapie radiononmiricordocosa. Tant'è.
(E non andare più per mare con l'ansia al posto della ciambella, mai, perché se poi ci vai anche col pedalò semini il panico in famiglia, contadino scemo che non sei altro).
Tanta rassegnazione che sai gestire sempre di più, con il fegato che si presta a bilanciare il guaio: bevi e ridi, ridi e scordi. Famiglie, amici, pensieri arcinoti che vanno a braccetto con i risentimenti: ecco lo stato dell’arte dentro la mia testa. E tu mi dici di non scrivere cose tristi, ma come faccio amore mio a usare i colori dentro questa istantanea di tempesta? Pieno, vuoto, fermo ora mi berrei un litro di vino e canterei stonato le rime dei miei avvenimenti e impiegherei i giorni che mi restano per raccontare ciò che rende la mia ombra, soltanto un’ombra raccontabile: vedrai amore mio che contrasti che nemmeno Giacomelli coi pretini: poi di domenica arriveranno tutti i colori dei pittori amati, direttamente dal mare.
(E non andare più per mare con l'ansia al posto della ciambella, mai, perché se poi ci vai anche col pedalò semini il panico in famiglia, contadino scemo che non sei altro).
Tanta rassegnazione che sai gestire sempre di più, con il fegato che si presta a bilanciare il guaio: bevi e ridi, ridi e scordi. Famiglie, amici, pensieri arcinoti che vanno a braccetto con i risentimenti: ecco lo stato dell’arte dentro la mia testa. E tu mi dici di non scrivere cose tristi, ma come faccio amore mio a usare i colori dentro questa istantanea di tempesta? Pieno, vuoto, fermo ora mi berrei un litro di vino e canterei stonato le rime dei miei avvenimenti e impiegherei i giorni che mi restano per raccontare ciò che rende la mia ombra, soltanto un’ombra raccontabile: vedrai amore mio che contrasti che nemmeno Giacomelli coi pretini: poi di domenica arriveranno tutti i colori dei pittori amati, direttamente dal mare.
foto di Mario Giacomelli |
Nessun commento:
Posta un commento