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venerdì 29 giugno 2018

Sicilia scaccia via quest'inverno di paure.

 Scrivo mentre stai dal professore A., scrivo mentre non ci sei, perché mentre ci sei cerco di stare con te. Non riesco più a starti lontano, ché ho paura che resti troppo da solo, e star solo oggi non è più come quando stavi solo l'anno scorso.
In questo pomeriggio luminoso sto davanti a un Campari che mostra la scorza d’arancia come una vela malconcia. Intorno a noi ragazzine viziate sorseggiano coca cola qui nel bar al confine dei Parioli. Forse non sono viziate, poiché non so quasi nulla di queste ragazzine, ma vedo quel loro modo sgraziato di accavallare le gambe, o di chiamare il cameriere, che stavolta mi fanno andare d’accordo col pregiudizio. Quando il bicchiere di Campari era pieno, c’eri anche tu seduto al tavolino che divoravi un tramezzino: sbirciavo mentre fiutavi gli sguardi di quelle ragazzine vocianti di biondo.
Poi sono venuto a prenderti, insieme al libro che non riuscivo a leggere nella mano, e nell’altra stringevo lo smartphone; arrivi tu, apri il portone e mi dici di entrare. Il professore col suo amabile, calmo e roteante modo di parlare mi fa sapere che il percorso termina davanti ai tuoi progressi che gli hai appena raccontato tra questi arazzi e libri, che ci mancheranno un po’. Spiazzato, accenno mugugni, che il professore interroga subito. Ripercorro in un minuto le tue espressioni, le tue parole, da gennaio ad oggi, e ammetto che il professore sa quello che fa, nel congedarti pur restando disponibile dopo l’estate. Così entriamo in auto sorridenti. Metti il Cd di Rancore e  passiamo in rassegna i testi di Rancore, e questa passione filologica spero resti come testamento emotivo nei tuoi racconti futuri.
Eccoci in macchina verso casa, ora la musica col bluetooth fa uscire sentimenti ammazzati dentro un’auto in Florida; mi fai ascoltare quel rapper che dici di avermi fatto già ascoltare l’estate scorsa. L’estate prima della tempesta, quella che sembra un’era di rabbia fa.
Passiamo a prendere mamma, sta lì con le sue buste di soddisfazione equo e solidale e il suo sorriso somiglia sempre di più al tuo sorriso di questi giorni: lo stesso che è in quella foto da bambino su quella bici gialla, anni fa. 2005, o giù di lì, quando è nato tuo fratello.
Vorrei piangere ora, ma io sto piangendo ora, e sto scrivendo come non facevo da secoli.
Intanto studio le mappe siciliane del nostro prossimo viaggio. Quello stretto, quel fuoco, e quella storia sapranno accoglierci come si aspettano i sogni al mattino? Ora spazzare via questo lirismo sdentato e scrivere del mio crollo di oggi. Un chiodo lungo un anno che premeva nella testa, “gli altri” che non sopportavo più, il tuo ennesimo risentimento che ho bloccato all’istante, e poi quella tua insopportabile rabbia esplosiva contro tuo fratello, insomma, tutto quel peso di nuvole nere che c’era oggi Roma.


Maledetto questo tempo di cattiverie esibite come medaglie, fatto di parole povere, concetti assenti, sensibilità soffocate per una rabbia bambina di non avere il macchinone nero, né un lavoro donato, né una fidanzata bionda. È che fa ringhiare anche persone insospettabili contro le facce spaventate dei migranti.

E noi che parliamo così bene quando difendiamo i più deboli, e noi che staremmo sempre su un treno a fantasticare mondi a suon di musica e libri. Ah, Il lamento di Portnoy, che mi sto godendo in questa ciclotomia passeggera che mi fa vedere tutto nero, ma poi leggo e tutto scompare.


Ora stiamo sul pullman uno accanto all’altro. Io scrivo, messaggi a casa, altri sui social, e tu ascolti il nuovo pezzo di Ernia - senti ch’è bella, pa’,e mi presti una cuffietta - e io che ascolto e penso alle tue insicurezze sempre più evidenti eppure sempre più scacciabili. So quanto ho contribuito in questi anni a farle crescere, perché crescevano anche in me. Scusa, scusatemi, in questi mesi ce la sto mettendo tutta a trasmettere energia buona a tutta la famiglia, e sto usando tutte le migliori parole che ho per voi.
A volte cedo, altre rinasco, poi ricado, e poi ancora mi rialzo e soffio dentro alla mia testa una sorta di tisana del pensiero: blocco ogni scatto aggressivo e riparto che sembro Gandhi in un centro commerciale.
Arrivati in questa cittadina spellacchiata e già generosa, poiché ti ha concesso di sfoderare sorrisi e battute in quantità che trabocca una quasi felicità.
Dal letto del b&b scrivo in mutande e registro sullo smartphone questi segnali di disgelo emotivo, e sto benissimo.
(Continua)


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