Dopo aver assistito all'ultimo concerto a Roma degli Offlaga Disco Pax, in un'atmosfera intensa e densa emotivamente, la curiosità mi ha spinto, in quell'occasione, di scambiare due chiacchiere con Max Collini per approfondire la sua conoscenza umana e artistica.
peppe stamegna
Com’è nato il
progetto degli Offlaga Disco Pax?
peppe stamegna
Esattamente all’inizio del 2003. Enrico venne a trovarmi per chiedermi se
potevo essere interessato a utilizzare in altra forma i racconti che stavo
scrivendo in quel periodo, racconti nati senza alcuna altra intenzione se non
quelli di restare un esercizio di scrittura e niente altro. Avevo quasi
trentasei anni, mi sembrò un’ idea bizzarra ma sposai la causa immantinente.
Daniele era appena stato informato via telefono da Enrico della cosa e anche
lui aderì al collettivo il giorno stesso. Iniziammo a provare, fu divertente ed
ecco nati gli ODP. Quelle ore probabilmente ci hanno cambiato la vita, ma non
ne eravamo certo consapevoli. Ancora adesso, dieci anni dopo, penso che il
nostro inizio sia stato figlio di una congiunzione astrale di eventi cosmici
irripetibili.
L’innesto dei tuoi testi
con le musiche di Enrico e Daniele come avviene?
Spesso partiamo dal testo, nel senso che difficilmente
Enrico e Daniele compongono senza tenere presente le atmosfere che per
similitudine o per contrasto i miei racconti o le mie liriche suggeriscono
loro. Non è sempre così, ma nella maggior parte dei casi si parte da quello. La
sala prove è però fondamentale anche per la mia scrittura definitiva: solo con
le musiche mi rendo conto di come il linguaggio può funzionare, la stesura del
testo e la sua resa narrativa con la voce non può prescindere dal suono in cui
viene inserita e non è raro che io cambi parole e frasi o almeno la loro
lunghezza e costruzione proprio in funzione di questo.
Sei consapevole delle
emozioni che riesci a far circolare durante i concerti? E dalla tua posizione
sul palco, cosa provi?
Sembrerà strano, ma anche dopo quasi dieci anni e
quattrocento concerti non sono mai completamente a mio agio sul palco. C’è
sempre un tratto di tensione, di ansia da prestazione, di vago disagio nel
mettersi a nudo e di scarsa adeguatezza al ruolo che mi rende terribilmente
nervoso. Più che di trasmettere emozioni spesso sono preoccupato di tenere a
bada le mie, ma di solito dopo tre o quattro brani il concerto diventa più
sereno, mi tranquillizzo, nelle occasioni più felici riesco anche a lasciarmi
andare un po’ di più e può accadere che mi esca una battuta o una
considerazione imprevista su quanto succede. Se parlo sul palco tra un brano e
l’altro e non mi limito alla sola presentazione del pezzo (già quasi sempre
scritta sul leggio per non sbagliare) significa che sto bene e che sono
rilassato, altrimenti è sostanzialmente impossibile che io scherzi o parli col
pubblico più di quanto già faccia attraverso i testi. Non si direbbe, immagino,
ma il palco mi annichilisce quasi sempre.
Da tempo leggo i tuoi
racconti, già dalla mailing list “neosensibilista”. Riesci a rappresentare un
presente ancora non del tutto raccontato, e per farlo spesso utilizzi pezzi di
storia personale che gravitano intorno all’universo Reggio Emilia. Qual è la
tua urgenza quando inizi a scrivere?
Proprio nessuna urgenza, da tempo sono diventato assai lento
e poco prolifico nell’approcciarmi alla narrazione. Sarà che il gruppo ha
assunto una sua specificità per cui ora scrivo pensando quasi esclusivamente a
quello, per cui mi cimento molto meno nel semplice diletto. Non è una cosa
voluta, così è avvenuto e così è al momento. Forse la responsabilità che
comporta oggi stare negli ODP ha un po’ limitato l’aspetto gioioso della cosa,
ma non posso farci nulla.
Nelle cose che scrivi
scorre molta Storia. Come se ci fosse una volontà di recuperare facce, gesta e
umori che altrimenti si perderebbero. C’è la volontà di sanare una ferita
storica, personale?
Se c’è è del tutto involontaria, non è uno scopo preciso
quello che agisce sulla mia “poetica”, se così vogliamo chiamarla, se non
raccontare una storia, qualunque essa sia. Certamente il mio imprinting culturale
è legato a un periodo che sta tra il riflusso, il declino e poi la fine del
patto di Varsavia e il conseguente nuovo ordine (o disordine) mondiale. La
scomparsa del PCI che ha accompagnato tutto questo è il lutto fondamentale che
ha segnato il mio esistere in quel momento, è quella la vicenda che in qualche
modo incide anche adesso sul mio sentire.
Che cosa stai
leggendo in questo periodo? E cosa ascolti?
Da parecchio tempo leggo appassionatamente tonnellate di
romanzi gialli svedesi, con una predilezione assoluta per Henning Mankell. E’una
cosa imprevista: fino al 2008 non avevo mai letto un giallo in vita mia,
nemmeno Simenon o Conan Doyle, per dire. Questa passione è nata per caso un
giorno in treno, mentre snobbavo come tanti altri la trilogia di Larsson mi
sono trovato davanti il primo volume: apparteneva alla signora di fronte a me e
che nel frattempo stava leggendo altro. Me lo ha prestato, l’ho iniziato, mi
sono appassionato all’istante, sono sceso dal treno e l’ho comprato subito per
poter continuare la storia. Da lì è nato l’amore per la Svezia, paese che ho
poi visitato nel 2009 viaggiando in macchina da Reggio Emilia fino a Stoccolma
e soggiornando anche a Ystad, la cittadina del commissario Wallander (un posto
che sta a Wallander come Vigata a Montalbano, per capirci).
Kurt Wallander è il personaggio che ha segnato la carriera
di Henning Mankell, lo scrittore che ha influenzato più di tutti assieme alla
coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö i tre romanzi di Larsson. Ora che ho esaurito i capiscuola
mi accontento delle seconde file: Asa Larsson, Camilla Lackberg, cose così. Non
è la stessa cosa, ma si fa come si può. So che molti si aspetterebbero da me
letture più sofisticate, ma io sono un geometra, non ho studiato filosofia, la
mia cultura letteraria ha dei limiti e mi piace leggere anche per il mero
divertimento che questo comporta e non sempre ho voglia di applicarmi. Di
recente ho letto “La vita agra” di Bianciardi, ero sempre stato prevenuto,
chissà poi perché, e invece è stata una bellissima sorpresa. Ringrazio davvero chi me lo ha regalato,
facendomi superare un pregiudizio atavico davvero immotivato.
Ti trovi a tuo agio
nella scena musicale indie italiana? Quali sono i gruppi con cui vorresti
collaborare?
Di norma mi trovo a mio agio ovunque, l’ambiente “indie” non
è poi così diverso da ogni altro ambito lavorativo e/o ludico. Certo, ha le sue
regole a volte un po’ astruse, ma è da lì che in qualche modo e con varie
sfumature veniamo, anche se ai primi concerti a più di qualcuno sembravamo dei
veri alieni! Non essendo un musicista non so rispondere precisamente alla seconda
parte della tua domanda, ma il “collega” che ammiro di più in termini di
espressività dal punto di vista letterario è Simone Lenzi dei Virginiana
Miller. Per la mia sensibilità i suoi testi sono bellissimi e in qualche caso
“importanti”. Ho letto di recente anche il suo romanzo d’esordio “La Generazione”
e lo consiglio. Da quel libro Virzì ha tratto spunto per la sceneggiatura di
“Tutti i santi giorni”, il suo ultimo film. Ovviamente libro e film non sono
proprio la stessa cosa e per quanto il film sia divertente il romanzo, come
quasi sempre accade, mi ha colpito di più.
3 commenti:
Bravo! bella intervista non proprio banale
Grazie Pè!
Grazie Jack e Andrea per la vostra attenzione.
Ma il geometra commentatore è scappato?
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