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mercoledì 28 novembre 2012

sette domande a Max Collini (offlaga disco pax)

Dopo aver assistito all'ultimo concerto a Roma degli Offlaga Disco Pax, in un'atmosfera intensa e densa emotivamente, la curiosità mi ha spinto, in quell'occasione,  di scambiare due chiacchiere con Max Collini per approfondire la sua conoscenza umana e artistica.
peppe stamegna




 

 


Com’è nato il progetto degli Offlaga Disco Pax?

Esattamente all’inizio del 2003.  Enrico venne a trovarmi per chiedermi se potevo essere interessato a utilizzare in altra forma i racconti che stavo scrivendo in quel periodo, racconti nati senza alcuna altra intenzione se non quelli di restare un esercizio di scrittura e niente altro. Avevo quasi trentasei anni, mi sembrò un’ idea bizzarra ma sposai la causa immantinente. Daniele era appena stato informato via telefono da Enrico della cosa e anche lui aderì al collettivo il giorno stesso. Iniziammo a provare, fu divertente ed ecco nati gli ODP. Quelle ore probabilmente ci hanno cambiato la vita, ma non ne eravamo certo consapevoli. Ancora adesso, dieci anni dopo, penso che il nostro inizio sia stato figlio di una congiunzione astrale di eventi cosmici irripetibili.
 
L’innesto dei tuoi testi con le musiche di Enrico e Daniele come avviene?
Spesso partiamo dal testo, nel senso che difficilmente Enrico e Daniele compongono senza tenere presente le atmosfere che per similitudine o per contrasto i miei racconti o le mie liriche suggeriscono loro. Non è sempre così, ma nella maggior parte dei casi si parte da quello. La sala prove è però fondamentale anche per la mia scrittura definitiva: solo con le musiche mi rendo conto di come il linguaggio può funzionare, la stesura del testo e la sua resa narrativa con la voce non può prescindere dal suono in cui viene inserita e non è raro che io cambi parole e frasi o almeno la loro lunghezza e costruzione proprio in funzione di questo.
 
 
Sei consapevole delle emozioni che riesci a far circolare durante i concerti? E dalla tua posizione sul palco, cosa provi?
Sembrerà strano, ma anche dopo quasi dieci anni e quattrocento concerti non sono mai completamente a mio agio sul palco. C’è sempre un tratto di tensione, di ansia da prestazione, di vago disagio nel mettersi a nudo e di scarsa adeguatezza al ruolo che mi rende terribilmente nervoso. Più che di trasmettere emozioni spesso sono preoccupato di tenere a bada le mie, ma di solito dopo tre o quattro brani il concerto diventa più sereno, mi tranquillizzo, nelle occasioni più felici riesco anche a lasciarmi andare un po’ di più e può accadere che mi esca una battuta o una considerazione imprevista su quanto succede. Se parlo sul palco tra un brano e l’altro e non mi limito alla sola presentazione del pezzo (già quasi sempre scritta sul leggio per non sbagliare) significa che sto bene e che sono rilassato, altrimenti è sostanzialmente impossibile che io scherzi o parli col pubblico più di quanto già faccia attraverso i testi. Non si direbbe, immagino, ma il palco mi annichilisce quasi sempre.
 
Da tempo leggo i tuoi racconti, già dalla mailing list “neosensibilista”. Riesci a rappresentare un presente ancora non del tutto raccontato, e per farlo spesso utilizzi pezzi di storia personale che gravitano intorno all’universo Reggio Emilia. Qual è la tua urgenza quando inizi a scrivere?
Proprio nessuna urgenza, da tempo sono diventato assai lento e poco prolifico nell’approcciarmi alla narrazione. Sarà che il gruppo ha assunto una sua specificità per cui ora scrivo pensando quasi esclusivamente a quello, per cui mi cimento molto meno nel semplice diletto. Non è una cosa voluta, così è avvenuto e così è al momento. Forse la responsabilità che comporta oggi stare negli ODP ha un po’ limitato l’aspetto gioioso della cosa, ma non posso farci nulla.
 
Nelle cose che scrivi scorre molta Storia. Come se ci fosse una volontà di recuperare facce, gesta e umori che altrimenti si perderebbero. C’è la volontà di sanare una ferita storica, personale?
Se c’è è del tutto involontaria, non è uno scopo preciso quello che agisce sulla mia “poetica”, se così vogliamo chiamarla, se non raccontare una storia, qualunque essa sia. Certamente il mio imprinting culturale è legato a un periodo che sta tra il riflusso, il declino e poi la fine del patto di Varsavia e il conseguente nuovo ordine (o disordine) mondiale. La scomparsa del PCI che ha accompagnato tutto questo è il lutto fondamentale che ha segnato il mio esistere in quel momento, è quella la vicenda che in qualche modo incide anche adesso sul mio sentire.
 
Che cosa stai leggendo in questo periodo? E cosa ascolti?
Da parecchio tempo leggo appassionatamente tonnellate di romanzi gialli svedesi, con una predilezione assoluta per Henning Mankell. E’una cosa imprevista: fino al 2008 non avevo mai letto un giallo in vita mia, nemmeno Simenon o Conan Doyle, per dire. Questa passione è nata per caso un giorno in treno, mentre snobbavo come tanti altri la trilogia di Larsson mi sono trovato davanti il primo volume: apparteneva alla signora di fronte a me e che nel frattempo stava leggendo altro. Me lo ha prestato, l’ho iniziato, mi sono appassionato all’istante, sono sceso dal treno e l’ho comprato subito per poter continuare la storia. Da lì è nato l’amore per la Svezia, paese che ho poi visitato nel 2009 viaggiando in macchina da Reggio Emilia fino a Stoccolma e soggiornando anche a Ystad, la cittadina del commissario Wallander (un posto che sta a Wallander come Vigata a Montalbano, per capirci).
Kurt Wallander è il personaggio che ha segnato la carriera di Henning Mankell, lo scrittore che ha influenzato più di tutti assieme alla coppia  Maj Sjöwall e Per Wahlöö i tre romanzi di Larsson. Ora che ho esaurito i capiscuola mi accontento delle seconde file: Asa Larsson, Camilla Lackberg, cose così. Non è la stessa cosa, ma si fa come si può. So che molti si aspetterebbero da me letture più sofisticate, ma io sono un geometra, non ho studiato filosofia, la mia cultura letteraria ha dei limiti e mi piace leggere anche per il mero divertimento che questo comporta e non sempre ho voglia di applicarmi. Di recente ho letto “La vita agra” di Bianciardi, ero sempre stato prevenuto, chissà poi perché, e invece è stata una bellissima sorpresa. Ringrazio davvero chi me lo ha regalato, facendomi superare un pregiudizio atavico davvero immotivato.
 
Ti trovi a tuo agio nella scena musicale indie italiana? Quali sono i gruppi con cui vorresti collaborare?
Di norma mi trovo a mio agio ovunque, l’ambiente “indie” non è poi così diverso da ogni altro ambito lavorativo e/o ludico. Certo, ha le sue regole a volte un po’ astruse, ma è da lì che in qualche modo e con varie sfumature veniamo, anche se ai primi concerti a più di qualcuno sembravamo dei veri alieni! Non essendo un musicista non so rispondere precisamente alla seconda parte della tua domanda, ma il “collega” che ammiro di più in termini di espressività dal punto di vista letterario è Simone Lenzi dei Virginiana Miller. Per la mia sensibilità i suoi testi sono bellissimi e in qualche caso “importanti”. Ho letto di recente anche il suo romanzo d’esordio “La Generazione” e lo consiglio. Da quel libro Virzì ha tratto spunto per la sceneggiatura di “Tutti i santi giorni”, il suo ultimo film. Ovviamente libro e film non sono proprio la stessa cosa e per quanto il film sia divertente il romanzo, come quasi sempre accade, mi ha colpito di più.
 
 
 
 
 



 

 

 

 

3 commenti:

jackS ha detto...

Bravo! bella intervista non proprio banale

Capitan vongola ha detto...

Grazie Pè!

peppe stamegna ha detto...

Grazie Jack e Andrea per la vostra attenzione.
Ma il geometra commentatore è scappato?