foto di josef koudelka |
Stavi in mezzo
alla carrozza, ti reggevi ai tubi freddi e guardavi gli scarponi. Due anfibi
che ti avevano prestato, stretti, pesanti, ti costringevano a sederti. Avevi
lavorato quattro ore presso il magazzino della panineria più diffusa del mondo.
Trascinavi i carrelli zeppi di patatine e insalate, carne e maionese lungo i
corridoi luccicanti della stazione Termini, con l’orrore negli occhi di
incrociare altri occhi che ti conoscevano, e avrebbero riconosciuto un fallito,
mica tu che eri partito carico di desideri. Stavi sulla metro e pensavi a un
enorme buca. Avevi gli occhi gonfi e la schiena piegata. Non fissavi nessuno,
come al tuo solito. Avevi voglia di sprofondare sul prato, o sul letto. Sei
sceso e hai preso l’autobus facilitato dal sole di mezzogiorno. In tasca una
ventina di euro sudati con disprezzo. Era luglio e molti chiudevano un anno di
lavoro e pensavano alle vacanze. Tu chiudevi un anno di lavoretti e pensavi al
lavoro che avresti cominciato a settembre. Un lavoro tutto nuovo, in un
ambiente mai sfiorato prima: sensazioni da affrontare col cuore in spalla. Così
fu.
Poi quella
stanchezza spaesata e quello sguardo sarebbero tornati come torna la tramontana,
ma per fortuna non torna quel terrore di buca aperta davanti ai sensi.
Stai in piedi e
aspetti il referto, la paura si mischia alla noia e lo sguardo spazia dall’Eur
ai Castelli, lasciando il presente che si sgretoli davanti alla macchinetta del
caffè. Passerà, caro professore passerà, e gli sguardi avranno ancora alberi e
fiori ad ostacolare il vuoto bianco.
Invece il vuoto
che vedo sulla tua schiena, bianco di notte, lucido di crema, mi appassiona e
fa volare verso le cose belle, e oggi basta così.
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