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lunedì 3 giugno 2013

parlo da solo

foto di josef koudelka


Stavi in mezzo alla carrozza, ti reggevi ai tubi freddi e guardavi gli scarponi. Due anfibi che ti avevano prestato, stretti, pesanti, ti costringevano a sederti. Avevi lavorato quattro ore presso il magazzino della panineria più diffusa del mondo. Trascinavi i carrelli zeppi di patatine e insalate, carne e maionese lungo i corridoi luccicanti della stazione Termini, con l’orrore negli occhi di incrociare altri occhi che ti conoscevano, e avrebbero riconosciuto un fallito, mica tu che eri partito carico di desideri. Stavi sulla metro e pensavi a un enorme buca. Avevi gli occhi gonfi e la schiena piegata. Non fissavi nessuno, come al tuo solito. Avevi voglia di sprofondare sul prato, o sul letto. Sei sceso e hai preso l’autobus facilitato dal sole di mezzogiorno. In tasca una ventina di euro sudati con disprezzo. Era luglio e molti chiudevano un anno di lavoro e pensavano alle vacanze. Tu chiudevi un anno di lavoretti e pensavi al lavoro che avresti cominciato a settembre. Un lavoro tutto nuovo, in un ambiente mai sfiorato prima: sensazioni da affrontare col cuore in spalla. Così fu.

Poi quella stanchezza spaesata e quello sguardo sarebbero tornati come torna la tramontana, ma per fortuna non torna quel terrore di buca aperta davanti ai sensi.

 

Stai in piedi e aspetti il referto, la paura si mischia alla noia e lo sguardo spazia dall’Eur ai Castelli, lasciando il presente che si sgretoli davanti alla macchinetta del caffè. Passerà, caro professore passerà, e gli sguardi avranno ancora alberi e fiori ad ostacolare il vuoto bianco.

Invece il vuoto che vedo sulla tua schiena, bianco di notte, lucido di crema, mi appassiona e fa volare verso le cose belle, e oggi basta così.

 

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