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mercoledì 8 giugno 2011

logorrea come marea



Logorrea come marea

Questa strada apre proprio il cuore, mi fa sentire uno con la dignità al posto della pelle. Tutta ‘sta roccia che si tuffa in mare e quei boschetti di macchia aggrappati al po’ di terra che resta; dove ti giri giri vedi la storia. Mi viene voglia di dirlo ad alta voce, ma a lei credo non interessi. Figuriamoci. Una volta da ragazzo mi ero fissato che dovevo portarmi una ragazza di Caserta a dormire nel motel che ho appena attraversato, così, per vedere l’effetto che faceva stare in una stanza tra il lago e il mare, di notte, con i bagliori retorici del caso.
“Hai avvisato Giulio che stiamo arrivando? quello vuole sapere se andiamo a cena da loro. Fanno la cena dell’estate col pesce alla brace, guai a non andarci”.
“Azz, mi so’ scordato. Mo lo chiamo subito. Mica ci perdiamo ‘sta cena”.
Ricordo di quell’amico mio che aveva la madre ricoverata per i nervi. Mi parlava di una mela verde su di un tavolo, e poi ‘sti mattarelli che ballano sbilenchi davanti a una terrazza col mare sbarrato dalle inferriate. Mi raccontava queste cose durante una delle tante notti passate insieme dopo il duro lavoro da camerieri: si parlava fino allo sfinimento, e nel frattempo ci divoravamo tutti i panini e i tramezzini avanzati al bar dove si sgobbava tutto il giorno. Gli volevo bene a Pino, solo che alla lunga non era facile stare tutti i giorni con lui; i problemi gli uscivano fuori suo malgrado, e la sua faccia a volte diceva quello che le parole accennavano soltanto. Come per la storia della mela sul tavolo: a me pareva che me l’avesse già detto. Era un po’ pesante, anche se sapeva far ridire e poi aveva ‘sta voglia di aiutarti sempre. Non aspettava neppure che tu glielo chiedessi.  Pino, ma dove sei?
 Queste curve che anticipano i tunnel mezzi bui mi fanno pensare alle volte che le ho percorse con l’alcol nella testa; le amiche sul sedile posteriore a fantasticare su di noi, che in silenzio ci difendevamo cazzeggiando sulla giornata andata. Poi capitava di ritrovarti sdraiato sulla sabbia con gli occhi chiusi a immaginare le traiettorie lente dei gozzi appena partiti. Lei spesso dorme durante il viaggio. Eppure il panorama è bello, ed io non sono un musone triste. Sarà il tempo passato insieme che fa cumulo e produce distanze di sicurezza. Non so proprio come litigarci oggi, non saprei quale appiglio usare. Intanto mi fa piacere pensare che potrei colpirla con una battuta feroce o amarla come una ragazzina capricciosa. Oppure magari fermarci all’improvviso, e fare l’amore sopra gli scogli come quella volta in Sardegna. Era di giorno e c’eravamo solo noi e i trenta gradi all’ombra: davanti a noi solo vento e mirto. Siamo ancora capaci di questo. Non come Mario che si ritrova separato e con un mucchio di debiti e tre donne da mantenere, figlia inclusa. Lui appena può scappa a Mantova dal cugino, dove si dedica a tutte le droghe presenti sul mercato. Un paio di giorni al mese per ritrovare un’armonia tra se e l’assurdo della realtà che si è ritrovato davanti agli occhi. Poraccio. Mario era il miglior raccontatore di storie del mondo.
“ Fermati, che compro il vino per stasera”.
Non è che io sia stato tutto il tempo a guardare il mare, e no, me lo ritrovavo tutte le mattine in faccia, mica lo sceglievo. Però ti faceva perdere tempo per bene, che, quando ti annoiavi, allora ti bastava passeggiare lento lento sul lungomare. C’erano tutte le storie su quel tavolo azzurro. C’era pure la mia, già scritta e non ancora vissuta. A me piaceva andare tutti i pomeriggi davanti alla casa di Antonella. Prendevo il motorino e passavo sotto casa sua. A quella piaceva e, anche se era timida, me lo faceva capire, che lo desiderava davvero. Aveva quella vocina delicata e paffuta, come di bambolina. La stavo sempre a pensare quando mi sdraiavo sul terrazzo tra le lenzuola stese di censura, per un presente ormonale irresistibile. Mi facevo le pippe come milioni di altri ragazzi. Nei posti e nei modi che battevano pure il genio dei telefilm americani, a volte, quando la noia spingeva verso repliche pomeridiane.
Stasera tutti da Giulio, con bocche piene di calamaretti a spettegolare di quei pochi che non hanno avuto la fortuna di esserci, da Giulio e dentro le sue cene memorabili. Là si profanano ricordi e s’imbalsamano le questioni presenti che spaventano. Là ci si stringe dentro a un enorme paltò fatto di risa e complimenti, che poi alla fine, quando sei in macchina, ripercorri ebete i momenti più allegri e ti viene da telefonare agli altri per raccontarli già. Una droga queste cene tra amici d’estate. Pure a lei piacciono, ma a me di più. Non ci dormo la notte a volte. Mi metto a immaginare le scene e il pensiero si eccita così da profetizzare le battute, per la prossima cena. Gli sguardi. Le risate.
A Pino piaceva stare fino alla fine della serata a chiacchierare. Non smetteva mai, mi sa che non voleva tornarsene a casa sua. Non che ci stesse male, ma voleva stare con noi per sentirsi più libero. Di dire quello che cazzo gli passava per la testa. Come si fa nelle feste da Giulio: un’infantile logorrea che altrove sarebbe bloccata da sguardi di fastidio.
Nell’ottantasette Pino si era fissato per una tipa roscia di Napoli. Non era proprio bella, ma camminava bene e parlava anche meglio. Era perso. Mi costringeva ad andare allo zen alle tre di notte a ballare. Claudio Coccoluto diventava il nostro jubox: Clash e Cure a rotta di collo. Io, Pino, la roscia e un’amica mora, a ballare con circa cento metri quadri a disposizione. Ogni tanto si buttava pure qualche villeggiante fighetto nella pista deserta. Poi verso le quattro di solito sorseggiavamo vodka&tonic, appena scroccato a Maurizio al bar. L’uscita di scena delle due napoletane era improvviso, e a noi restava una passeggiata meditativa lungo la staccionata che dava sulla spiaggia. Ognuno verso un punto indefinito. Anche se di solito io a sud, e lui a nord.  La fine della malinconia era uno sguardo tra noi nemmeno Tognazzi e Gassman; accenno di saluti ai superstiti e ai baristi affaticati, e ritorno in auto silenzioso. Sfumava insieme al gas di scarico della dyane ogni pensiero gigante: stasera è la serata giusta. Sto in forma, vedrai che su rock the casbah le ballo intorno ai fianchi. Vedrai. Sì, vedrai.
“Vabbè invio un sms a Livia, così lei avvisa Giulio che andiamo”.
Ecco l’albergo dove lavorava Pino. Mi raccontava che ci dormiva pure. Si è fatto tutta la stagione lì. Era appena finito il periodo da incubo con la madre ricoverata e con tutta la famiglia che si frantumava. Così mi diceva, e a me veniva in mente le case che crollano durante il terremoto. Insomma, diceva che lì c’erano enormi cameriere dell’entroterra che la sera si acchitavano e ci provavano col maitre, e se andava male scendevano di grado. Con lui mai, poiché era un piccolo comì. Gli restava di innamorarsi di ragazze ricche di Roma. Una sera un gruppetto di romani lo portò in una discoteca. Era la prima volta per lui, gli pareva un posto dove tutti pensavano al sesso. Alla fine passò, così mi raccontò, tutta la notte tra il divanetto e la finestra. Diceva che non sapeva proprio cosa fare. Io invece in quel periodo mi godevo la spiaggia cogli amici. Sgobbavo sui libri tutto l’inverno, poi, appena arrivava giugno, mi aggregavo ai peggio fancazzisti del litorale: lucertole di giorno e ragni di sera. Le ragazze baluginavano come insetti da catturare; a volte una birra in più constatava la mancata cattura.
“Allora, che hai deciso di arrivarci domani alla cena. Su, accelera un po’”.
Mamma mia, ho capito che ti pesa stare in macchina con me, ma siamo quasi arrivati, così potrai parlare con Livia tutto il tempo. C’era quel nostro amico che aveva bisogno di sangue.  Allora partiamo una mattina fresca di giugno, alle sette. Maurizio aveva bevuto l’ultima birra alle tre; noi, anche se sobri, una volta arrivati all’Umberto I, davanti agli occhi dell’infermiera vogliosa di sangue, scopriamo che solo uno di poteva donarlo. Duecento kilometri, quattro ragazzi che insieme facevano cento anni e trecento kili, riescono a lasciare per l’amico solo un sacchettino di liquido vinoso. Il ritorno silenzioso e lungo ci ha fatto fare un balzo in avanti di trent’anni. Dopo il saluto ricordo solo l’asfalto misto a pietra che i miei occhi seguivano per raggiungere prima possibile casa. Mia madre e tutto il mio dorato mondo bambino; mi sa che quel pomeriggio frullava nella testa una frase tipo: non esiste la morte né la vecchiaia, solo un eterno stare dentro al presente. Poi in un pomeriggio senza vento squilla il telefono grigio: ha vinto la leucemia, Piero non ce l’ha fatta. Ricordo che anch’io non ce la facevo a raggiungere il bagno. Volevo vomitare i cinque minuti appena trascorsi.
“Fermati che voglio prendere il tabacco.”
La sorella di Pino mi teneva ore al telefono. Sembravamo due fidanzatini. Pareva che dovessimo confessarci da un momento all’altro arditi desideri, invece alla fine solo un almanacco sulle cose da fare. Giorno per giorno. Per tutta l’estate. A settembre Gianni mi dice che hanno scopato. Ma chi? La sorella di Pino. La conosci, no? Un po’, rispondo. Vabbè quella, niente di che, credimi. Vabbè, dico io. Mi sa che mi sono innamorato della sorella di Pino. Da oggi però. Ieri mica tanto. Domani le chiederò cosa vuole fare dopodomani. Questo pensiero mi torturava come una lucertola in preda al sadismo di un ragazzino alle tre di pomeriggio in estate, senza amici.
Certo che l’azzurro del cielo qui non conosce sfumature. Domani voglio stare tutto il giorno a osservare questo enorme e muto cielo. Altro che parenti e shopping. domani mi sveglio e mi sdraio già dalle otto in terrazza. Devo pensare tutto quello che vale la pena ricordare. Lasciatami in pace. Amen.
“ Meno male siamo arrivati. Ma quanto ci abbiamo messo? alla faccia”.
 Le solite due ore, magari se uno chiacchierasse un po’, passerebbero prima.
“ C’è sempre più traffico in uscita da Roma. Senti, comincia ad andare tu. Io vado a salutare zia, così poi prendo pure il vino”.
“Sì, cosi io aiuto Livia a preparare. Prendi la falanghina, mi raccomando”.
Prima prendo ‘sta falanghina e poi me ne vado da zia. E mi rilasso su quel bel divano-sprofondo, con quei cuscini che stanno lì dagli anni settanta. Ligi al dovere di sopportare culi familiari e per niente misteriosi. Intanto vado al bar di Maurizio, ma sì, che stasera voglio arrivare da Giulio rilassato; senza la solita eccitazione che mi fa dire tutto nella prima ora, poi bevo, e alla fine rido sdentato fino all’alba. E checcazz, voglio mostrare anche un’altra faccia stasera.
“Ch’ sì beglie, come stai amico mio?”.
“Uè ma sei proprio fresco come ‘na rosa e maggio. Maurì, ma non c’avevi cinquant’anni l’anno scorso?”
“ E no, ora sto a quarantanove. Mica stiamo in città qui, che il tempo si stringe. Lo vuoi un caffè?”.
“Come no, lungo e strong. Daje che devo arrivare fino alle tre di notte”.
Che bella persona che è Maurizio, non si fa schiacciare da niente: morti, violenze, sfighe commerciali. Sta sempre col sorriso di chi ha davanti il meglio del mondo. Eppure quella volta a Pino l’ha massacrato di botte. Che c’entra, poi si sono chiariti, ma quello che successe in quella notte resterà strano per sempre. Gianni anni dopo mi disse che c’era di mezzo un sospetto di abuso: la sorella piccola di Maurizio molestata da Pino. Ma può essere? gli dico. E quello: certo, Pino si era innamorato ma quella aveva dodici anni e lui diciotto. Sì, in effetti Pino quando si fissava faceva paura, ma fino a mettere le mani addosso, pareva strano. A me Pino ha detto che Maurizio era solo geloso e quella sera, bevendo due bottiglie di vino in un’ora, ha cominciato a delirare fino a saltargli addosso con violenza. Maurizio è sempre stato imprevedibile e violento, ma spesso lo faceva per senso di giustizia. E per un’antica vocazione al massacro, che, con l’adesione al gruppo degli autonomi bolognesi verso la metà degli anni ottanta, culminò nella quotidiana azione di saccheggi e piccoli attentati. Per un anno intero. Poi si disintossicò lavorando come cuoco per tre mesi di fila in una casa vacanze per disabili.
“Ciao Maurì, ci vediamo domani per la colazione. Prenoto un cornetto alla crema”.
Certo che queste case così alte e strette lasciano intravedere tutti i misteri. Di sicuro le anteprime arrivano con i suoni: qui tutti sentono tutto degli altri. A volte le persone le riconosci dalla voce, mica dalle facce. Ci sono infinità di vecchiette che appaiono ogni tanto dalla porticina, poi, appena senti la voce, completi il quadro. Chissà magari non ci abiterei più per un periodo lungo, ma per un mesetto forse sì. Un mesetto da solo.
“Pronto, dimmi tutto”.
“Come stai, ti sei svegliato meno male?”
“Sto da zia, ora arrivo.”
“Ma è quasi l’una. Verso le nove ti ho chiamato, e tua zia ha detto che ti sei addormentato e nel sonno deliravi. Come con la febbre, diceva. Allora ti ho lasciato stare…”.
“Ma perché? Dico, almeno potevi venire, o chiamare ancora”.
“ Vabbè, ma ho parlato con tua zia anche dopo, alle dieci. Poi non volevo disturbare”.
Ma cosa è successo? Cazzo, ho fatto pure un sognaccio. C’era Pino che andava alla cena da Giulio. Io non c’ero. Stava in mezzo agli altri che raccontava della sua vita a Firenze: gestiva una latteria-libreria. Stava con una ragazza di almeno venti anni meno di lui. Pareva sereno, sicuramente brillante come un ragazzetto che dentro al mese di agosto non lascia niente a nessuno. Infatti, le donne della serata, compresa mia moglie, pendevano dalle sue labbra. Tutte a fargli domande. Lui rispondeva con garbo ironico: un fiume di racconti che non aveva bisogno d’argini. Gli argini erano i corpi abbronzati delle donne, e la foce erano le facce intontite degli uomini. Diceva che era tornato per via di alcuni documenti; pratiche da sbrigare per la madre ricoverata in una casa per anziani fragili. Vicino ad Arezzo. In collina. Di mare non ne voleva più sapere. Verso la fine del ricordo del sogno c’era un fruscio tra le siepi e corpi di donne in chiaroscuro; volti non se ne vedevano, ma solo corpi nudi: mi pareva di riconoscere anche mia moglie. E Livia. Le foglie si agitavano, le risa rimbombavano appena, giusto per far impallidire la faccia arrossata di un bambino. Osservava tutto e restava deluso. Pensieroso ascoltava lo sconcio della natura. Cosi pareva, così sognavo. Ma ricordo tutti questi dettagli? O c’ero? Ma il tanfo di vino che sento, a cosa è dovuto. Una macchia rossa sul pavimento e un urlo tra le case mi fanno scappare fuori. Un vento tiepido leva dalle strade quel po’ di sporco rimasto del giorno. Fisso tutte le stelle presenti e mi accontento del sogno spezzato, che mi costringe a tremare come un bambino.
“Ci sei mancato ieri sera, stavamo sempre a parlare di te, in fondo in fondo c’eri”.
“Come no, stavo proprio là a bere vino e a cantare sotto al ciliegio le canzoni di Battisti. Ché non mi hai visto?”.
Ecco, questa strada di ritorno verso la città con queste infinite curve lente che sfiorano le colline, lascia sentire quel po’ di acido che le ginestre liberano nell’aria. Ma quanti pensieri neri mi riporto in città? Non sono stato alla CENA, non ho liberato nessuna delle mie caustiche battute. Non ho amato. E poi perché quel sogno: Pino che torna con tutta quell’arroganza e con la voglia di prendersi tutto.
Pino poi, se guardiamo bene la storia, mi ha fregato per bene. Già allora, quando andava a letto e si drogava con Selene. Quando me l’ha raccontato sono rimasto bloccato per venti minuti. Lui parlava e io sprofondavo. Non volevo neppure menarlo, non riuscivo a pensarlo nemmeno. Selene era il mio amore ancora bocciolo. Lui lo sapeva, lui ha fatto il giardiniere esperto: coglie poco prima della fioritura tutto quello che c’è da cogliere. Sì, ma qui siamo ragazzi dentro a un racconto piccolo e fragile, dove le parole non dette fanno la differenza. Mica stiamo dentro un racconto di Hemingway, qui a malapena arriviamo davanti a dieci occhi; per metà frettolosamente notano una battuta, una parolaccia, uno scatto erotico. E il resto? Meglio lasciar stare e continuare a leggere le storie degli altri. Caro Pino il ricordo ora mi spezza le gambe, e non provo nessuna vertigine.
Questa terrazza sul mare di giorno è proprio una cartolina. Ma di notte, col rumore stridente delle poche auto che passano, e con le macchine che traballano dal troppo sesso consumato di fretta, be’, di notte forse è meglio non venirci. Invece sono qui davanti a questo strapiombo oleoso di nero. Questa macchia scura che non lascia vedere nulla, mi si staglia davanti agli occhi. Ma io scendo. E sento fruscii che intervallano la risacca là sotto. Precipito quasi, correndo come un bambino pauroso nel sonno: sento un gemito. Vedo una faccia, appena un profilo in realtà. Un cerchio di uomini e donne che fissano un fuoco tenue, già consumato dalla notte umida. Il rumore di un gozzo d’altri tempi copre le voci. Tutti stanno pensando, nessuno si muove: eppure sto qui già da venti secondi. Tra di voi, dopo la discesa. Un’onda meno timida delle altre arriva fino alla prima ragazza, questa non se ne accorge neppure. Allora inizio a urlare, visto che c’è un branco di cani che mi fissa, appena dentro la luce del fuoco. Nessuno mi aiuta. Arriva una coppia. Arriva mia moglie. Arriva Pino, subito dopo. Prendono posto nel cerchio. Il guizzo dei pesci nel mare allerta un gabbiano, ma non si muove neppure lui. Non so proprio cosa fare in mezzo a questi pazzi immobili, non riesco a star fermo. Entro in acqua lentamente, come mi aveva insegnato zio Vincenzo. Anche in questi momenti non riesco a fare le cose a cazzo. L’educazione si è presa gran parte della mia giovinezza. Quella di Pino proprio no, che c’entra, resta una brava persona, ma appena poteva tirava fuori la natura dalla sua testa e dal suo corpo scattante. L’acqua è fredda, nera e accogliente. Nuoto leggero verso il gozzo: là qualcuno mi ascolterà. Taglio il mare in due, e da lassù, sopra la litoranea, si vede uno squarcio che cerca un riparo. Le persone intorno al fuoco non si vedono: ma i gemiti restano. Mia moglie resta, ma non la vedo più. Pino è da qualche parte, me lo sento e la malinconia improvvisa me lo testimonia. Sulla barca un vecchio che non s’impressiona: chè succiess’, stai ad affugà? Viè ‘ncopp, che ‘nu post’ c’sta. Iamm, che aggià pisca stanott. Neanche mi presento. Mi accuccio e lascio guidare a lui. Intanto il chiarore rimette tutto a posto sulla spiaggia. Intanto Pino sta su di un letto sfatto di Firenze, e mia moglie si prende il suo ultimo sbuffo in faccia.
Oggi ho dormito proprio tanto tanto. Ora ce ne torniamo in città, ma stavolta voglio fare la pontina, che sono anni che l’ho abbandonata per la più comoda e larga autostrada. Quando parto con la macchina che è già sera mi viene da pensare alle volte che questa strada la facevo da solo, anche in piena notte. Con ogni tipo di carcassa. Sempre salvo, comunque.
“Fermati a quel bar di Terracina, così ci prendiamo un caffè come una volta”.
“ Come no; vado proprio in automatico quando sto da quelle parti, è una tappa obbligata, amore mio. Ti ricordi quella volta che poi abbiamo fatto subito dopo l’amore?”.
Già, e chi se lo scorda? Quel seno tra i denti, illuminato dagli abbaglianti che pareva fosse una scena di un film anni trenta. Ed io unico protagonista. Lei la diva. Mamma mia, quasi quasi ci provo…vabbè, magari tra un po’. Ora voglio pensare: ché questi pensieri traboccano senza pietà. Sto sempre a pensare a Pino, che poi mi fa pensare a Marco: quella volta gli ho lanciato tutti quei sassi addosso. Ma come, il mio primo compagno, che avevo scelto dal balconcino con le ringhiere verdi, da dove con le mie gambe penzoloni stavo in attesa che mia madre mi dicesse: ora viene Marco a giocare con te, sei contento? Ero il suo primo amico e lui il mio primo compagno. Dopo la sassaiola non ci siamo parlati per anni. Due rancori a forma di cuori. Gli sguardi aspettavano la prima mossa, o il segnale dell’armistizio: per caso arrivò, causa amici in comune con la passione per il pallone. Che poi ci siamo ritrovati – dopo altri dieci anni così e così – alla prima edizione del concerto del primo maggio, tutti e due soli, con la fortuna di poterci raccontare addosso. Mi parlò di Rubbia e delle sue capacità scientifiche; io replicavo come al solito improvvisando racconti allegri sulle mie peripezie o fobie, a secondo del tema. Sulle nostre teste una coltre di smog invisibile che ci avrebbe accolto di lì a poco come cittadini, provocando, forse, poiché toccherebbe chiedere conto magari a Rubbia, la morte di uno dei due. La sua, poiché io mi ritrovo qui a raccontare spietatamente fatti altrimenti sotterrati anche loro, tra preservativi e papaveri. Non penso mai a mio padre morto. I miei pensieri si fermano sempre al livello del mare. Come dicevo prima, e là che ci sono le storie da tirare su col retino. Seppure col tempo abbia recuperato un po’ d’amicizia con Marco, niente cancellerà quel lancio cinico di sassi. Avrei potuto ammazzarlo stecchito su di un sentiero avanzato allo squarcio di una strada, che stava tra la sua bella casa in collina e la mia, al di sotto, tra i vicoli ammuffiti. Vabbè, mica per odio di classe che l’ho fatto. Solo per odio. Sì, a volte ho provato odio feroce e, come Maurizio, l’ho trasformato in ottusa violenza. Io? E sì, proprio io. Allora perché pensare male di Pino, che poi ha fatto solo quello che sentiva di fare, fregandosene delle mie romantiche attese? Ma io non odiavo Pino, anzi. Volevo essere come lui, spaccone e malinconico che scopava quasi tutti i giorni. Pino a un certo punto non volevo vederlo più. Con la scusa che mi ero fidanzato, lo evitavo con stile. Una volta ho proprio fatto finta di non vederlo: quando mi sono accorto che stava di fronte a me, al tavolino del bar “Polo sud”, be’ proprio in quel momento mi sono tuffato nella bocca di Barbara. Quella per poco non soffocava, di certo non era abituata a essere presa in quel modo in pubblico. Tanto che nel giro di alcuni minuti stavamo già sulla spiaggia a rotolare tra lattine vuote e mozziconi appiattiti. Quella volta Pino finalmente ha capito: non eravamo più amici al quadrato, solo amici. E a lui non bastava. Lo conoscevo, voleva le cose piene piene, a metà le lasciava cadere. Era così, e non mi dispiaceva che lo fosse, ma io dovevo respirare, e anche un po’ stare con la fidanzata. Eh.

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