In quel tempo che giocavo come un forsennato coi tappi mi sono pure innamorato.
Si chiamava Valentina, aveva 12 anni, era di Napoli. Certi pomeriggi di
controra mi sdraiavo sul lettino e me la immaginavo in santa pace: la amavo da
sdraiato, all’ombra. Non ne parlavo con alcuno, tanto meno con lei. Poi mi rialzavo,
mangiavo una rosetta con la nutella e tornavo alle gare sulla pista del
marciapiede. A testa in giù facevo schizzare ancora più veloce quei tappi che a
tratti mi facevano pensare a delle corone di regine, un po’ ammaccate. Le ferie
d’agosto Valentina le trascorreva al mio paese, in una casa al terzo piano di
fronte alla mia, appena quattro metri di vuoto ci separavano. Spesso prima di
andare a dormire lei era lì con le sue gambe penzoloni infilate tra le maglie
della ringhiera: gambe abbronzatissime. Io stavo di fronte con le mie gambe
secche accanto a quelle di Alessandro, quello peloso e piccolo, e cercavamo con
gli sguardi di trasmettere dichiarazioni audaci, ma con le parole riuscivamo
solo a sfotterla come due scemi. Alessandro ci metteva un gusto nel farlo che
mi faceva salire il sangue al cervello. No, mica glielo dicevo, invece stavo lì
a rinforzare i suoi maligni sfottò: mi sembri Michael Jackson, le diceva! E poi
arrivava il momento dei saluti ancora più scemi: Valentì, attenta agli zombi
stanotte, eh. E il momento esatto che chiudevo la porta finestra mi saliva un
magone che asciugava il sangue di prima, ma ridevo lo stesso, con tutti le
gengive di fuori all’ultima battuta di Alessandro, già di spalle con tutti quei
peli che sbucavano dalla canottiera rimasta appiccicata alla sua schiena. Mi
sdraiavo sul lettino in slip e sbirciavo la finestra di fronte spenta e vuota
come un pianto non esploso.
Così passai quell’agosto esagerando col gioco dei tappi: addirittura
feci esordire anche le tappe, poiché fino allora non mi ero posto la questione
delle femmine nel gioco. Ce n’erano alcune che sceglievo tra i tappi della
cedrata o dei succhi di frutta. Quei gialli e quei bianchi arricchirono quella
comunità monocromatica che era stata fino allora la mia cittadella dei tappi: comparvero
anche le scuole, i bar e le spiagge. M’inventai certe posture dei tappi per
farli apparire più felici, più imbronciati o semplicemente più curiosi di come
sembravano prima. A Valentina non feci mai vedere le gesta di quei tappi,
neanche sotto tortura l’avrei fatto, eppure quel cambiamento sociale dipendeva
dal mio amore per lei: avevo colorato un gioco che pensavo fosse solo da
maschi, ma non riuscii mai a farci giocare una femmina, così come non riuscii
mai a dare un bacio a Valentina. Quando giocavamo a nascondino, e ci si
ritrovava dietro le macchine parcheggiate al porto, e tra noi e il mare c’era
solo quel tanfo di nafta e pesci morti, ci fissavamo al buio e scoppiavamo a
ridere per le mie battute, e delle volte le nostre mani nervose sfioravano una
coscia o un braccio dell’altro, niente, neanche in quei momenti esibivo quella
modifica sociale apportata nel mondo dei tappi: l’amore. All’epoca avevo una
timidezza strana: intimissimo con i compagnetti della cerchia, ma bloccato con tutti
gli altri. Avevo sempre bisogno di una spalla per sfottere, parlare, giocare. A
favore dei miei compagnetti mettevo in atto l’effetto pigmalione, come si usa
dire in pedagogia, quindi sapevo tirare fuori il meglio da ognuno di loro, ma
loro, all’oscuro dei miei sentimenti per Valentina, non potevano proprio farmi
fuoriuscire niente, figuriamoci l’amore per lei. Così quel che resta di
quell’amore oggi se ne sta tra le mie stanche scapole a farmi i versacci, le
pernacchie, per sbeffeggiare giustamente quella mia primitiva vigliaccheria
maschile.
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