Me ne stavo sdraiato sul divano letto e tutto d’un fiato leggevo Il posto, di Annie Ernaux. Il libro comincia dalla fine e poi ripercorre attraverso poco più di cento pagine un distacco lungo almeno quanto una generazione. Lo fa senza nominare la mutazione antropologica né maledicendo il presente, eppure, nel suo silenzioso allontanarsi l’Io narrante srotola densi addii a un mondo, e al suo linguaggio passato: scorro le pagine e sento il distacco che sfuma lentamente. Una liberazione? Una necessità ineludibile, forse.
"Forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci".
In
piena notte mi ritrovo a sottolineare a mente passi folgoranti e poi, verso la
fine del libro, mi alzo nel freddo della stanza e punto a un mio vecchio
cassetto. Cerco una matita per sottolineare, ricordare, ché mi sale la smania
di raccontare agli amici queste frasi che stanno spegnendo per sempre ogni velleità di
riattaccare rotture. Niente, nel cassetto c’è di tutto tranne una matita:
batterie ossidate, guanti, pinze, bottoni, pagelle e foto giallognole sparse.
In fondo scovo l’ultima carta d’identità di mio padre, fatta tre anni prima che
morisse. Nella foto già i segni della senilità misteriosa che lo stava
schiacciando; e immagino mia madre che fuori dalla cabina gli dice con
insolenza di stare dritto, un attimo prima dello scatto. I suoi occhi sono spenti, niente
forza né coraggio ma solo una resa che mi aveva dilaniato durante quel periodo:
era il 2001, nasceva il mio primo figlio e dopo tre mesi piomba la morte di mio
padre, poi con l’anno nuovo la mia laurea, inattesa e indifferente per quel mio vecchio
mondo. Scosse di assestamento per tutto quell’inverno. Poi ho dimenticato, e
oggi sono ritornato.
Il libro di Annie Ernaux è esile e potente dentro una storia come tante
dello scorso secolo, eppure lei sceglie parole e periodi che sanno inquadrare con maestria la sua storia che si rimpicciolisce dentro
la Storia, e (a tratti) viceversa: lo sfondo si fonde nei fatti, nessun giudizio e nemmeno
complicità emotiva durante le fasi più drammatiche. Solo una scrittura precisa, che squarcia i significati attraverso i fatti, le cose, le azioni delle persone che riempiono questa breve e intensa storia, prima che tutto scompaia in un vuoto futuro: il momento della lettura, o l'immagine sfocata di nostro figlio già in un'altra casa. Mi sono commosso lo stesso
mentre mi spostavo nel letto a ogni capoverso per non cedere al pianto, a me piace cedere quando resto da solo, ma poi mi scopro a lottare lo
stesso da sempre contro questa splendida debolezza. Chissà perché.
"Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre. in cui anch'io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un'altra".Nel libro c’è solo concreta letteratura che poggia su quella politica della letteratura che la scrittrice francese ha utilizzato lentamente, sedimentando le parole, scegliendole accuratamente per raccontare questa storia: scrivendolo non in maniera spontanea. La riflessione sulle parole è per me qualcosa che assomiglia a una lotta, a una scelta che crea una necessaria disfatta di bauli di parole non utilizzabili per quello che hai deciso di raccontare. Questo è un po’ quello che ho assorbito anche durante l’incontro di Annie Ernaux a Più libri più liberi, accanto al suo traduttore Lorenzo Flabbi, nella sua minuta posa ma con una forte personalità la scrittrice se ne stava un po’ spaurita davanti a noi devoti strambi di quest’arte della lettura, cui immoliamo interi pomeriggi festivi. Poi ho fatto la fila per la dedica, e mi sono inginocchiato dicendole “Mercì”.