La calma in
tasca
Devo scendere. Ecco, alla prossima
fermata scendo. Devo prendere aria. Qui sto scoppiando. In tasca stringo forte
il barattolino giallo. Dentro c’è la mia calma. Certo, potrei prenderlo ora, ma
sarebbe imbarazzante. Qui nella metro tutti ti osservano. Lo faccio pure io di
solito, in fondo c’è poco altro da fare.
Fermata Cavour. È
piccola, quasi anonima. Proprio qui mi toccherà prendere per la prima volta le
dieci gocce di Tranquillirt. La gentile psichiatra del S. Camillo me le ha date
durante un pronto soccorso: mi ha detto di usarle solo per emergenza. Così me
le tracanno d’un fiato. Alla faccia dei basagliani d’accatto. Voglio vedere
loro in queste condizioni. Una ragazza come me, di buone letture, brava
lavoratrice che - all’improvviso - dopo trenta anni vissuti tranquillamente, si
ritrova ad avere attacchi d’ansia incontrollati. E fare figure di merda quasi
tutti i giorni. Scappare anche quando si sta tra amici, sempre con la scusa
della diarrea. Il mio ragazzo che non vuole più scopare. “Sembra ‘na matta, ha ‘ste
paure ogni cinque minuti”. Solo a lavoro sono integerrima, non scappo mai.
Già mi sento meglio, le
gambe si alleggeriscono e l’asfalto sembra molle. Le insegne si allungano
davanti a me. Vedo la faccia di mia nonna annuire serena; il rumore delle auto
è dolce e mi spinge a sedermi sul gradino freddo della scalinata.
- Pronto, volevo dirti che la matta
sta per fidanzarsi col Tranquillirt gocce, e preferisce il suo sapore aspro
nella bocca, piuttosto che il tuo alitaccio malaticcio. -
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