Dallo scorso post mi sono preso un
brutto raffreddore. Sarà stata la corsa all’alba. Non ho più vent’anni, e
neppure gli allenamenti nelle gambe. Eh! La misura, ci vuole misura nelle cose
della vita. Quello, per eccesso di sensibilità, si è preso ‘na botta che ancora
si vedono gli effetti psicologici: parla da solo lungo i viali della sua città,
prima lo faceva solo di sera ora anche di giorno. Appena finisco di leggere una
cosa di Pascale mi metto a ragionare come un pazzo. E no, anche là ci vuole
misura e aspettare in silenzio che i messaggi arrivino alla mente, mica solo al
cuore o alla gola. Ecco, devo imparare a far decantare le cose della vita e poi
parlarne, usarle o distruggerle, magari salvando qualcosa. Sì, farò così,
perché bisogna sempre trarne qualcosa dall’esperienza e, soprattutto, non si
possono scocciare le persone a prima mattina e stare a tremila. Almeno falle svegliare, falle prendere i fili del giorno
in mano; che tu stai già dentro al rame quando lei voleva rimanere alla guaina.
In fondo il giorno viene fuori anche per spazzare via il troppo profondo che ci
rapisce la notte, e anche il troppo rame che conduce i nostri pensieri nei
dolci e improvvisi meandri dell’anima nera, quella più vera e che somiglia un
po’ all’andamento stanco e dignitoso delle donne rom, ai bordi delle strade
scassate. Va bene così?
Un frullatore mi sento, e dentro
tutti i frutti che colgo come un forsennato dalle mie piante coi rami fragili e
malaticci: recidili quelli prossimi a schiattare, funziona così in botanica.
Eppure a Roma, nel 2012, dentro a giornate vorticose di niente: casa, pc, letture, caffè in abbondanza, tweet
peace&love, e la lavatrice da stendere. Un ricamo difficile e dagli esiti
incerti. Legami sottili che s’ingrossano di colpo e sorprendono. Un susseguirsi
– se non usavo ‘sta parola morivo oggi – di pensieri tra ieri e ora che tolgono
il fiato, e un po’ anche la ragione. La misura, appunto. Che stupido finale a
effetto, la scrittrice di Bari me lo segnerebbe con la penna rossa. Tant’è, con
gli effetti miei ci faccio quel che mi pare.
Ho ascoltato questa canzone dei
Marlene milioni di volte negli anni ’90; può competere con gli ascolti solo con
“Amsterdam”, e, forse, con “Del mondo”, o giù di lì. Le due ultime righe di
nostalgia sono dedicate a Ettore.
1 commento:
Ettore (ed un'altra persona che non posso dire) ringrazia(no).
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