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martedì 16 luglio 2013

Arturo ascolta


Stamattina mio cugino mi ha scritto una lunga mail. Il contenuto è osceno, quindi, sorprendente e coraggioso. Apprezzo questa sua verve in questi mesi di conformismo cazzuto e senza prospettiva; apprezzo la sua esposizione, e l’inquietudine che infonde come concime chimico sulla mia testa bio-decadente.

Vi chiedo un parere a margine, poiché non so bene cosa rispondergli, e non rispondere è tra i peggiori difetti della contemporaneità, e io voglio diventare meglio di me stesso.

   Caro cugino,

l’altra sera me ne sono andato al circo. Il piccolo me lo chiedeva da giorni, e come resistere alla sua insistenza fatta di parole convincenti (ci sono i watussi!)? Allora, dopo essermi scolato una Poretti, osservando il cielo ovattato di smog mi sono passate nella testa le seguenti immagini schizofreniche, “La diserzione degli animali del circo”, una canzone che ascoltavo come un inno anni fa, e subito dopo delle foto in cui Chaplin insieme alla figlioletta applaudiva divertito a uno spettacolo circense. Così, dopo il passaggio inutile di queste due immagini mi sono convinto: ci vado, e vado alla maniera de “L’Italia spensierata”, così provo a farmi un’idea dal vero. Eh!

Sotto al tendone c'erano poco meno di cento gradi di puzze animalesche, e la canzone del pulcino Pio prometteva momenti da dimenticare. Poi, per fortuna, arrivano i cavalli bianchi che fanno brillare gli occhi al piccolo e io, guardandolo, mi faccio brillare gli occhi anch’io. Il resto te lo risparmio, accenno solo al fatto dell’uscita dell’elefante – il mio animale preferito – durata appena venti secondi per ribellione dello stesso. Alla fine i numeri che mi sono piaciuti di più sono stati quelli dell’acrobata contorsionista. Sì, perché gli artisti facevano tutti più cose; a un certo punto un inserviente si è messo a fare un numero dentro a un costume strambo, tipo millepiedi. Un circo di periferia, per noi della periferia, che al centro aveva una presentatrice cicciotta con la parlantina alla Orietta Berti. All’uscita vediamo una tigre dentro a un camion-espositore, la fisso esterrefatto e lei mi guarda storto: non mi restava che scappare. Il piccolo in macchina mi chiede perché non avevo fotografato il dromedario, mentre lo chiede sta già cercando di pensare a come raccontare bene agli altri quello che aveva visto al circo. Un po’ come faccio io davanti ai clown che mi capitano davanti tutti i santi giorni, a cui forse dedico troppo tempo, eppure, sotto sotto, alla fine non vedo l’ora di raccontarli agli amici. Per ridere.





Ecco, cugino mio, ho superato i quaranta e sto qua a confessarti che vorrei scappare in Canada o a Genova, insomma di svignarmela da questa città eterna di noia, per non dover fare fino a settant’anni il clown dei clown, che poi, pensandoci bene, non  ridiamo più di queste cose, no?

Cugino bello, stanotte ho finito di leggere “Il giovane Holden”. Che stile sanguigno, e quanti fatti narrati coi nervi in quel libro. Ti ricordi quando scappavo da te la notte dopo giornate di nervi e poche parole? Cercavo spiegazioni ai miei fallimenti scolastici e tu non sapevi fare di meglio che farmi vedere dei  film francesi. Che carezze che mi davi, a modo tuo mi amavi e sostenevi in quei momenti di mia assoluta sospensione dalle cose e dalle persone. Tu non stavi tanto meglio di me, ricordo. Eppure. Oggi ti voglio dedicare questa frase che ho letto in un blog: non c’è modo migliore di essere amici che fare insieme una cosa bella.

Se vuoi sostenermi, ascoltami ancora un po’, e non annuire distratto. Forse abbandono questa città, il lavoro, e le mie svuotate certezze. Vorrei che tu mi dicessi la verità però, quella che mi riguarda, quella che ci riguarda: dove ho sbagliato, e quando ho lasciato che la realtà intorno entrasse come una gazza ladra nelle mie giornate, sottraendo la mia essenza? So solo che vivevo tranquillo di cene e chiacchiere, poi di colpo, in una notte, come in un racconto della Paley mi sono scombussolato il cervello pensando all’inutilità necessaria di quei gesti ripetuti. Basta! Ho gridato all’alba, e sceso dal letto in mutande ho cominciato a schifare i miei atteggiamenti flaccidi, le mie rinunce già alle dieci di mattina, e le mie pagliacciate solo per sconfiggere la noia. Ma chi ero davvero in quei momenti, e chi sono ora con questo furore inaudito appiccicato alla pelle, adesso, davanti a te che avrai pure i tuoi pensieri e le tue storie da sistemare? Ma solo tu puoi sconfinare l’ovvio e dirmi quattro parole sincere per aiutarmi a stabilire una partenza, una fine, da quel mondo che abbiamo sempre sfanculato nei pomeriggi degli anni novanta, a suon di musica e racconti comici, e che poi ci siamo ritrovati tra i piedi come cagnolini feroci.
Questi pezzetti di me che ti ho raccontato hanno un filo fragile che li lega, e tu sai come ricucirli partendo dalla ferita.
grazie.

Ti ascolto. Come sempre.

Arturo.

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