Stamattina mio
cugino mi ha scritto una lunga mail. Il contenuto è osceno, quindi, sorprendente
e coraggioso. Apprezzo questa sua verve in questi mesi di conformismo cazzuto e
senza prospettiva; apprezzo la sua esposizione, e l’inquietudine che infonde
come concime chimico sulla mia testa bio-decadente.
Vi chiedo un
parere a margine, poiché non so bene cosa
rispondergli, e non rispondere è tra i peggiori difetti della contemporaneità, e io voglio diventare meglio di me stesso.
Caro
cugino,
l’altra sera me ne sono andato al circo. Il
piccolo me lo chiedeva da giorni, e come resistere alla sua insistenza fatta di
parole convincenti (ci sono i watussi!)? Allora, dopo essermi scolato una
Poretti, osservando il cielo ovattato di smog mi sono passate nella testa le
seguenti immagini schizofreniche, “La diserzione degli animali del circo”, una
canzone che ascoltavo come un inno anni fa, e subito dopo delle foto in cui
Chaplin insieme alla figlioletta applaudiva divertito a uno spettacolo
circense. Così, dopo il passaggio inutile di queste due immagini mi sono
convinto: ci vado, e vado alla maniera de “L’Italia spensierata”, così provo a
farmi un’idea dal vero. Eh!
Sotto al tendone c'erano poco meno di cento
gradi di puzze animalesche, e la canzone del pulcino Pio prometteva momenti da
dimenticare. Poi, per fortuna, arrivano i cavalli bianchi che fanno brillare
gli occhi al piccolo e io, guardandolo, mi faccio brillare gli occhi anch’io.
Il resto te lo risparmio, accenno solo al fatto dell’uscita dell’elefante – il
mio animale preferito – durata appena venti secondi per ribellione dello
stesso. Alla fine i numeri che mi sono piaciuti di più sono stati quelli
dell’acrobata contorsionista. Sì, perché gli artisti facevano tutti più cose; a
un certo punto un inserviente si è messo a fare un numero dentro a un costume
strambo, tipo millepiedi. Un circo di periferia, per noi della periferia, che
al centro aveva una presentatrice cicciotta con la parlantina alla Orietta
Berti. All’uscita vediamo una tigre dentro a un camion-espositore, la fisso
esterrefatto e lei mi guarda storto: non mi restava che scappare. Il piccolo in
macchina mi chiede perché non avevo fotografato il dromedario, mentre lo chiede
sta già cercando di pensare a come raccontare bene agli altri quello che aveva
visto al circo. Un po’ come faccio io davanti ai clown che mi capitano davanti
tutti i santi giorni, a cui forse dedico troppo tempo, eppure, sotto sotto, alla
fine non vedo l’ora di raccontarli agli amici. Per ridere.
Ecco, cugino mio, ho superato i quaranta e
sto qua a confessarti che vorrei scappare in Canada o a Genova, insomma di
svignarmela da questa città eterna di noia, per non dover fare fino a
settant’anni il clown dei clown, che poi, pensandoci bene, non ridiamo più di queste cose, no?
Cugino bello, stanotte ho finito di leggere
“Il giovane Holden”. Che stile sanguigno, e quanti fatti narrati coi nervi in
quel libro. Ti ricordi quando scappavo da te la notte dopo giornate di nervi e
poche parole? Cercavo spiegazioni ai miei fallimenti scolastici e tu non sapevi
fare di meglio che farmi vedere dei film
francesi. Che carezze che mi davi, a modo tuo mi amavi e sostenevi in quei
momenti di mia assoluta sospensione dalle cose e dalle persone. Tu non stavi tanto
meglio di me, ricordo. Eppure. Oggi ti voglio dedicare questa frase che ho
letto in un blog: non c’è modo migliore di essere amici che fare insieme una
cosa bella.
Se vuoi sostenermi, ascoltami ancora un po’,
e non annuire distratto. Forse abbandono questa città, il lavoro, e le mie
svuotate certezze. Vorrei che tu mi dicessi la verità però, quella che mi
riguarda, quella che ci riguarda: dove ho sbagliato, e quando ho lasciato che
la realtà intorno entrasse come una gazza ladra nelle mie giornate, sottraendo la
mia essenza? So solo che vivevo tranquillo di cene e chiacchiere, poi di colpo,
in una notte, come in un racconto della Paley mi sono scombussolato il cervello
pensando all’inutilità necessaria di quei gesti ripetuti. Basta! Ho gridato
all’alba, e sceso dal letto in mutande ho cominciato a schifare i miei
atteggiamenti flaccidi, le mie rinunce già alle dieci di mattina, e le mie
pagliacciate solo per sconfiggere la noia. Ma chi ero davvero in quei momenti,
e chi sono ora con questo furore inaudito appiccicato alla pelle, adesso, davanti
a te che avrai pure i tuoi pensieri e le tue storie da sistemare? Ma solo tu
puoi sconfinare l’ovvio e dirmi quattro parole sincere per aiutarmi a stabilire
una partenza, una fine, da quel mondo che abbiamo sempre sfanculato nei
pomeriggi degli anni novanta, a suon di musica e racconti comici, e che poi ci
siamo ritrovati tra i piedi come cagnolini feroci.
Questi pezzetti di me che ti ho raccontato hanno un filo fragile che li lega, e tu sai come ricucirli partendo dalla ferita.
grazie.
Ti ascolto. Come sempre.
Arturo.
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