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domenica 18 novembre 2018

Deglutire vergogna, vivere

Stretto tra mia madre e mio padre sul sedile posteriore stringevo quel che restava dell’uovo. L’aveva preso dieci minuti prima mia zia nel gallinaio basso e puzzolente. Me l’aveva dato a mo’ di paghetta, cioè con quel gesto a metà tra il caporale e il datore di lavoro, senza sorriso, e per me significava che me l’ero proprio guadagnato. Avevo dodici anni. Ero secco come una canna di bambù, e tenevo in piedi già il fantasma della mia ansia. Avevo, e credo sia vero a distanza di decenni, una faccia sempre disponibile a vivere, seppur paralizzata da una timidezza blu: mi bloccavo, ma covavo già un probabile riscatto futuro. Quella sera, dopo che siamo scesi dall’auto, feci vedere le mani ai miei: un inguacchio giallognolo si muoveva come tanti atolli alla deriva sul palmo. Con i miei ero tiranno, così finii che cazziai loro per il fattaccio. In realtà ero preoccupatissimo per aver sporcato l’auto di zio. La sua opinione era oro per me, da quando mi aveva concesso un vecchio semenzaio in concessione per farci un orto. Da quel giorno è stato un susseguirsi di complimenti: che bell’orto, che peperoni e che pomodori. La mia vergogna però vinse dentro l’auto in quella serata fredda, perché io non avevo il coraggio di dire: mi si è scrafacciato l’uovo in mano. Non riuscivo a prendere sonno quella sera, neppure parlottando coi santi come facevo in quel periodo. E neppure dopo aver preso una supplementare tazza di latte con orzoro. Forse zio mi avrebbe declassato a nipote normale, dopo un consulto fulmineo con gli occhi della moglie, mi avrebbe tolto senz'altro il semenzaio; sicuro mi avrebbe guardato come guardava quei gatti dispettosi a cui destinava scarpate improvvise, proprio un secondo dopo che gli aveva messo gli scarti di cibo sulla busta riciclata della pasta Paone. Tremavo quando vedevo quella violenza, nella mia testa sentivo un crack, ma poi me ne dimenticavo. Insomma, mio zio non se ne accorse di quel po’ di liquido giallognolo che cadde in auto. Zia sì, e mi fece un cazziatone senza guardarmi negli occhi: continuava a pulire i broccoletti. Io l’ascoltavo come ascoltavo la messa prima di andare a giocare a pallone, all’oratorio.
Dopo qualche giorno arrivò all’improvviso un'esplosione nucleare che attraversò l’intero mio corpo di bambù: lottavo per trattenere dei conati che sentivo salire violenti e sconosciuti. Fu la prima volta. Per trent'anni ci ho convissuto, oggi posso dire - timidamente eh - che finalmente sto deglutendo quella vergogna dell'uovo schiuso in mano tra mio padre e mia madre, sul sedile posteriore di una cinquecento carta da zucchero.
Perché mio padre non stesse davanti su quell’auto, come si usava in quel tempo per i padri, sarà oggetto del secondo capitolo: la mia insicurezza trattenuta tra le gambe e gli occhi.


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