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lunedì 7 gennaio 2019

Ero scemo, ero bello

   La stazione mi sembrava vecchissima, più dei miei genitori rimasti a letto mentre io salivo su quel treno puzzolente proveniente da Siracusa. Però c’era una bella luce di settembre e tantissimi taxi, bus, giapponesi e belle ragazze che mi parevano tutte spensierate, a differenza di quelle di Gaeta che parevano o contesse o sceme. Pure io però sembravo altezzoso e scemo, con la timidezza e la spocchia del diverso, all’epoca. Insomma, ora sto (stavo) qui a Santa Maria Novela e aspetto il taxi per la prima volta in vita mia, anzi, è il tassista che aspetta me: prego, dove deve andare? San Frediano, via di San Frediano numero sei. Salga, su.
Il portone altissimo, la strada stretta, l’Arno a cento metri. Mi accoglie Marco, un inquilino vicino di letto: tre letti in una stanza che però fungeva anche da corridoio per un abbaino affittato ad altre due persone. Questo l’ho scoperto dopo una settimana, vedendo passare un tipo insonnolito verso mezzanotte. Marco mi prepara subito un caffè e mi fa tante di quelle domande, almeno quante ne ho ricevute negli ultimi due anni. Mi siedo, accavallo le gambe, respiro e rispondo a raffica per paura che la sua attenzione possa scemare all’improvviso. Invece mi ascolta e mi fa: andiamo, ti offro un caffè da Pascosky. Così mi ritrovo ad attraversare il ponte Santa Trinità per la prima volta accanto a un ragazzo più vecchio di me, con una faccia che mi ricorda Gaber, e un accento che fa scivolare le parole sull’ultima sillaba e con una camminata tipica da paese borbonico: mani in tasca a formare una protezione genitale da ogni avversità cittadina. Però è simpatico quando comincia a parlare di musica per accattivarsi la mia giovinezza. L’altro argomento è il suo passato da contestatore, un po’ rinnegato, e che sopravvive in un ascolto religioso di Guccini. Io lo osservo mentre parla con autorevolezza che gli ho donato all’istante, appena mi ha chiesto: che musica ascolti? L’altro argomento che poi ha ripreso quotidianamente erano le sue invenzioni pre-tecnologiche riguardo a un sistema di asciugatura delle lavatrici, era il ‘90, era l’anno della benzina verde!… Insomma, prima o poi avrebbe brevettato le sue scoperte e avrebbe campato un po’ di rendita, almeno così sembrava che sperasse, mentre mi raccontava i lati negativi del suo lavoro come decoratore. Lo osservavo come se sfogliassi un libro sugli effetti della migrazione interna in Italia nella generazione del dopo ‘68: ce la farò anch’io, vedrai mamma ce la farò anch’io, suggeriva la sua faccia immalinconita. Mi stava simpatico anche quando raccontava di una donna che aveva rincontrato dopo dieci anni e nel frattempo lei si era sposata, aveva una figlia, ma lo cercava e lo voleva con sé almeno una volta alla settimana.
  Marco Abitava a Firenze già da dodici anni, io da dodici ore, eppure dai suoi racconti avevo recuperato tempo, soprattutto un tempo che mi era stato negato dal mio paese, da mia madre, dalla mia timidezza. Intendiamoci, avevo una libertà tale che un sessantottino si sognava, poiché io non professavo nessuna ideologia né appartenenza: ero soltanto solo al mondo. Fermati, non sto partendo col racconto tristissimo del ragazzino scappato di casa, no, si trattava di una solitudine intimissima: sapevo solo io quello che volevo realmente, gli altri erano spettatori dei miei slanci, delle mie fughe, delle mie stramberie maldestre, e poco più. Insomma, stavo qui a Firenze nel ‘90 in una casa per migranti post-fame degli anni cinquanta, e ci stavo per frequentare la Scuola di fotografia f/64 di Luciano Ricci. Avevo letto un suo annuncio su Fotografare, una rivista dell’epoca e, mentre sedevo svogliato in classe scrivevo sul diario: voglio andare a Firenze per studiare fotografia! E il mio amico di banco, con cui realizzavo vignette potentissime - lui disegnava io davo le idee - che facevano ridere da pisciarsi sotto pure al primo della classe. Insomma Amedeo mi dice, lasciando cadere la matita nervosamente sulla scalinatura: ma si scem’? E aveva un po’ ragione, poiché a marzo mi sono ritirato scemamente da scuola e a maggio stavo già a Firenze per conoscere Luciano Ricci. Era il primo viaggio che facevo da solo, e non avevo idea che profumo avesse, e neppure di dove sarei andato a dormire. Certamente non me lo chiedevo mentre addentavo una bistecca fiorentina in un ristorante con vista sul Duomo. Quando Ricci me lo ha chiesto, dopo che mi aveva fatto vedere la scuola, fatto conoscere gli allievi, e raccontato con tono sbrigativo lo scopo della scuola, io ho risposto: boh! Così mi sono ritrovato in una stanza a Figline Valdarno, dopo che ho cenato con una coppia che frequentava la scuola, anche se lui era essenzialmente un meccanico e lei una bella ragazza generosa, e che mi avevano offerto subito ospitalità appena hanno capito che quel mio boh! era frutto di una totale mia dipendenza dal mondo che mi passava davanti agli occhi. Questi due Rivera e Modotti nella Valdichiana mi hanno subito adottato per quella sera, anzi, fino al mattino, quando lei mi ha accompagnato alla stazione offrendomi pure la colazione.
 Questa è una traccia della mia vecchia libertaria mente che nella pagina precedente avevo abbozzato male, e che riprenderò col prossimo racconto erotico.


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