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mercoledì 12 gennaio 2011

i maestri non si scordano mai?

E facevo le foto. Uscivo da casa con le fiamme davanti agli occhi: illuminavano la scena, e poi lo scatto. Mi divertivo, non c’è dubbio. Costruivo storie spinto dalle lezioni, che avevo nella testa, dei miei maestri. Del mio maestro. Una furia di conoscere il mondo intorno. Una febbre che mi spingeva a fare.
Dove sono le foto di mio padre? Lorenzo me le chiedeva, e io non sapevo rispondere. Perché? Questo torto non se lo meritava. L’ho dimenticato del tutto. Non ne parlo mai. Poco fa, preso da una descrizione sul cielo, e arrivando a parlare di quando bambino stavo spesso su di una paranza a giocare, all’improvviso Lorenzo mi ha detto: vorrei avere un nonno! Allora io di corsa l’ho portato a vedere le foto che ho stampato tanti anni fa. In bianco e nero. Quelle che Luciano mi diceva di stampare. Soprattutto quelle. E le altre dove sono? Sui negativi, sicuramente. Eppure ricordavo di averne stampate molte di più. A parte quelle donate alle persone fotografate, le altre che fine hanno fatto? Sono scappate verso padroni più attenti. In fondo, le ho quasi abbandonate. Per tanto tempo le consideravo portatrici di maledizioni varie. Soprattutto stavano lì a giudicare i miei passi falsi in giro. Non mi perdonavano di averle relegate al passato. Ma come, noi ti abbiamo aiutato a crearti un’identità, e tu cosa fai: ci abbandoni nei sottoscala delle case che hai abitato? Così pareva che sussurrassero mentre le mostravo a Lorenzo. Mi disperava l’idea di non aver stampato abbastanza foto di mio padre. Eppure gliene ho fatte. Una volta addirittura un intero servizio durante una notte e una mattina “a tirà la rezz”. Stavamo sulla spiaggia di Serapo, era inverno, il fuoco dei pescatori a ridosso del lido, la barca appena partita per il largo, e io in compagnia dei puzzolenti pescatori ad aspettare di cominciare a tirare la rezza. Una volta sono pure andato in barca per fotografare quella fase. Ma la sensibilità non era sufficiente per farmi imprimere le immagini senza usare il flash.
Così ora aspetto di vedere le foto di Luciano. Vederle scorrere davanti agli occhi - senza più le fiamme di una volta - e pensare a quelle di mio padre. Che non trovo più. In fondo un padre ho sempre cercato. Un maestro. Degli occhi cui affidare le mie paure e i miei sogni; anche solo per ricavarne bellezza. Quella che avevo in tasca in quei giorni di Firenze. Ricordo con piacere quando si stava dentro a quello studio – molti bei libri sugli scaffali - con quel tavolo lungo in fondo: intorno noi ad ascoltare parole che sapevano di sogno e verità.
Un ghigno di Luciano aveva la forza di allontanarti anni luce, così come un suo sguardo dolce sapeva recuperare la luce e gli anni persi a girare a vuoto. Ognuno nel proprio paese di provenienza. Ognuno di noi che aspettava quelle parole. In quegli anni cruciali le nostre storie si avvicinavano. Si sfioravano per poi bloccarsi una seconda volta. Sì, siamo rimasti bloccati davanti allo straripare settimanale del corso di Luciano. Così per me.
Ma all’alba da un treno che mi lasciava alla stazione senza saluto, scendevo dalla mia allucinata visione d’immagini - recuperate a Gaeta - e mi accomodavo davanti a un tavolo reale. E robusto. Dove Luciano Ricci avvolgeva tutti noi e disegnava facce e luoghi con le sue parole. Poi le nostre stampe sparigliate, compiti della settimana, apparecchiavano il nostro presente.



Poi la crisi mi ha piombato ogni volontà di fotografare e mi ha fatto voltare le spalle a quei giorni passati. Oggi non più, poiché sento che sia giunto il tempo di stringere la mano al mio passato. E vedere negli occhi di mio padre una scintilla di ricordo, che avvicina il suo mondo al mio: poi la sera ognuno per la sua strada, dopo aver mangiato magari pesce appena pescato. Dopo aver sorriso uno negli occhi dell’altro.
Arrivare a stringere tutto il tempo del corso di fotografia di Luciano come se fosse una lezione ancora aperta per tutti noi. I migliori consigli ricevuti: l’ostinazione del credere alle proprie ossessioni, per poi liberarsene usando più bellezza possibile. E poi di tenere a bada i nostri limiti, attraverso il quotidiano sforzo a varcarli con piccoli e significativi passi in avanti.
Di notte o all’alba, basta che si faccia al meglio.

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