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lunedì 17 gennaio 2011

lungomare

Questo lungomare è proprio bello. Inizio a camminare con passo veloce così da attraversare le cose di fretta, ma so vedere tutto lo stesso: intanto un bambino che si avvicina al mare. Poi una mamma, con i capelli scombinati dal vento, che sussurra al figlio di fare piano. Già sono dietro la mia visuale quando mi accorgo di un uomo, basso e tarchiato, che osserva da lontano la scena. Sembra distaccato anche se un po’ interessato. Un ratto mi taglia la strada. Anche di giorno questi enormi mostri urbani fanno il loro dovere. In allerta per eventuali altri suoi compagni di rosicchiamento, cammino al centro del marciapiede. Le macchine lasciano un silenzioso rumore di fondo per le mie orecchie.
Ora una ragazza si fa rincorrere da un ragazzo muscoloso; la sua faccia è da innamorato fresco e voglioso. Forse si sono appena conosciuti. Sa che da lì a poco l’avrà tra le braccia e ogni malinconia sarà alle spalle: in mare, tra i cefali famelici. Ancora il battello affondato è rimasto lì da quella devastante mareggiata del ‘75. Nero, ancora imponente nonostante una buona metà stia sottacqua. Intorno pescatori che a gambe penzoloni aspettano Moby Dick. La brezza non abbassa molto la temperatura, ma riesce a darmi una sensazione di aiuto. Quello che servirebbe all’anziano signore col bastone e una bocca spalancata dalla fatica. Davvero vecchio cerca ancora di raggiungere i suoi amici. Non voglio aiutarlo, non posso farlo. Meglio che capisca che il suo tempo è agli sgoccioli. Questo duro pensiero irrompe nella mia mente e mi paralizza. Un miscuglio di pensieri e idee che, come pesci nevrotici di un piccolo acquario domestico, sbattono contro le pareti dure della coscienza. Qualcuno esce, qualcosa si rompe, resta il docile silenzio dei pensieri vecchi.
Ecco ora intravedo la donna delle giostre. Il suo enorme seno è in parte poggiato sul banco di metallo, dove passano gettoni e mani. Quelle dei papà indugiano un po’ davanti a quelle belle tette per metà scoperte al mondo. Si dice che la sera s’intrattenga con gli uomini nel camper di servizio. Forse c’è pure quel vecchio di prima: ecco la sua cocciutaggine nell’andar in giro oscenamente a quell’età. Forse c’è anche mio padre tra quegli uomini in attesa di un piacere a buon mercato, nel retro del luna park. L’unica cosa certa è che ci sono anch’io col pensiero, schiacciato da un caldo insopportabile. Mio padre non lo trovo seduto sulla balaustra mezza arrugginita del lungomare che da sul porticciolo: una parte della banchina è dominata da yacht e catamarani da ricchi. L’altra banchina è zeppa di gozzi e piccole imbarcazioni da pesca. Il mare qui puzza di benzina e il suo colore è grigio. Non c’è mio padre poiché è morto. Da tempo. In una gelida mattina di settembre. Senza vento, solo una scia di tristezza che apriva la strada davanti alla mia macchina. Che veloce andava a riprendersi la colpa. E le mie mani scoprivano un lenzuolo bianco ospedale: un volto di pietra, slavato e piuttosto placido, poggiava senza attesa. Sì, è lui. Dico al medico di guardia. Era lui, penso in silenzio colposo.
Non c’è nessuno appollaiato come avvoltoio, come un tempo. Pescatoti mischiati a operai, contadini e capitani di lungo corso in pensione. Tutti in fila a parlare di mare e di terra. Di donne e di figli. Pomeriggi lunghissimi d’estate che devono essere riempiti da parole e gesti quotidiani. Da sveltine con la tettona di prima. Da trattative con i figli per non cedere troppi soldi per giostre o gelati. A volte cedevano per entrambi le richieste, se l’umore era buono e la pesca del mattino era stata generosa. Le mogli a casa a preparare cene e figli dopo il riposo sacro della controra. Da questo lato del lungomare ci sono anche degli alberi non proprio di mare: platani, e qualche albero da frutto messo lì dai marinai. La misera fontana che disegna l’aiuola è sempre lì. Un getto debole d’acqua le dà un senso.

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