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martedì 10 maggio 2011

fine della triblogia di Zena


E poi si doveva andare in piazza Alimonda. Si deve. Andiamo coi figli. Enrica ha provato a spiegargli perché stavamo andando lì: parole che cadevano come sassolini sul prato. Arrivati, facciamo un giro veloce intorno alla piazza, come a cercare chissà cosa: una lapide? La salvia della canzone? Invece ci stupiamo come due bimbi che la città ha esorcizzato il fantasma attraversando veloce tutti i giorni quel selciato anonimo. Il bar all’angolo, con due bariste energiche e cortesi, fa un buon caffè. Quel giorno di luglio era chiuso. Quel giorno tutto era chiuso, e le nostre parole non sapevano più dove sbattere. Davanti alla tv.
Genova in questi giorni ha fatto rimbalzare nella mia testa due nomi: De Andrè e Giuliani; stanno lì a farmi sentire NULLA davanti al loro coraggio, alla loro beatificazione. Una generazione che si vanta del proprio anticlericalismo e poi, alla prima occasione utile, riproduce paro paro tutto l’immaginario dei santi da adorare. Il kit del beato. Il beat che ci libera dal male. Ecco, inciampo ancora una volta dentro a questa pozzanghera fangosa che è diventato il pensiero medio della mia generazione  - quindi certamente anche il mio  -  soprattutto di quelli che sento da sempre dalla mia parte. Ancora?
Lo squalo grigio dell’acquario di notte cosa fa? forse, per non impazzire, passa in rassegna tutte le facce che l’hanno guardato tutto il giorno: compreso il mio sguardo assetato e curioso di capire il perché  tutto quel nuotare. E fisso quegli occhi rassegnati da cibo non conquistato; quei movimenti che sembrano dire “giro tutto il giorno e vedo solo facce con bocche aperte di denti aperti”. Quello sguardo di squalo annoiato ancora mi perseguita, e mi obbliga a riflettere sul mio girare a vuoto di certi pomeriggi romani di qualche anno fa.
Eppure sentivo una puzza di mare insinuarsi nei corridoi, e mi sa che ho schiacciato pure un’alga. In fondo l’acquario sta per dilagare dentro le nostre storie, cara amica, qui l’acqua dolce non consola più. Dobbiamo continuare a saltare come delfini, addestrati all’obbligo di essere come più piacciamo? belli, intelligenti e solidali. Una voglia di fracassare ogni vetro tra di noi, e restare lì sanguinante a ridere delle idiozie digerite negli anni, comprese quelle di due mie vecchie amiche che esultano poco dopo la caduta delle torri gemelle. Brindano, addirittura.
Dov’era la mia testa dieci anni fa?

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