Quanti capelli neri impazziti
nell’aria. Due gambe veloci, sguardi che sbiecano su di te. Avessi visto un
film, ieri, anch’io, oggi sarei lieto di parlarne per bene. Ma ieri avevo la
rabbia nelle tasche e sulle strade piene di buche, poco prima della loro casupola,
una coppia di rom teneva una torcia in mano per farsi notare dalle auto che gli
schizzavano accanto. Roma veste ancora col vestito da pecorara lungo le sue
strette consolari; per me, che le attraverso tutti i giorni, appaiono malinconiche
o terribili, questo lo decreta la musica che ho deciso d’ascoltare in quei
momenti.
In fondo sono isolato dalla città:
vivo di là dal raccordo e lavoro poco più in là dello stesso. Non vedo altro,
non partecipo quasi a nulla di ciò che accade in città. Quindi, caro amico, non
so di cosa parlare se non delle mie reazioni sentimentali davanti a cieli
sterminati nascosti da veli neri di polveri. Questa sconfinata bellezza che so
solo io, esiste davvero, e aspetta giorni migliori e intanto, con una lentezza
preoccupante, predilige l’ottimismo alla sciagura. Ma intorno un frastuono di
morte inquina le mie orecchie. Per fortuna o per scelta decido cosa e come
ammirare le cose belle della vita. Quei capelli, per esempio, e quelle mani
sicuramente. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, diceva Cesare, quello della
canzone di De Gregori, che poi era Pavese. Chissà, pure da ateo incallito,
vaneggio un’idea che da qualche parte ci siano tutti gli ultimi sguardi delle
persone; una teca come un enorme scia di visioni che non muoiono mai. Magari, che
bello che sarebbe consegnare ai posteri le immagini finali di ognuno di noi,
che poi sarebbero iniziali per chi le guarderà. Frammenti che si compongono per
il futuro. Ma sì, liberiamoci dell’attualità opprimente e desolante e affidiamoci
agli sguardi altrui; aspettiamo una qualche luce tecnologica che ci faccia
restare sospesi nel tempo.
Mio figlio mi ha detto che oggi la
maestra gli ha raccontato di Leopardi e, chiedendomi cosa intendesse il poeta
per “infinito”, sono partito con metafore e bla, bla, e lui: vabbè ma la siepe
non l’hai detta. E io: che c’entra, quello era un simbolo, una barriera, etc.
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