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giovedì 1 dicembre 2011

finito?


Quanti capelli neri impazziti nell’aria. Due gambe veloci, sguardi che sbiecano su di te. Avessi visto un film, ieri, anch’io, oggi sarei lieto di parlarne per bene. Ma ieri avevo la rabbia nelle tasche e sulle strade piene di buche, poco prima della loro casupola, una coppia di rom teneva una torcia in mano per farsi notare dalle auto che gli schizzavano accanto. Roma veste ancora col vestito da pecorara lungo le sue strette consolari; per me, che le attraverso tutti i giorni, appaiono malinconiche o terribili, questo lo decreta la musica che ho deciso d’ascoltare in quei momenti.
In fondo sono isolato dalla città: vivo di là dal raccordo e lavoro poco più in là dello stesso. Non vedo altro, non partecipo quasi a nulla di ciò che accade in città. Quindi, caro amico, non so di cosa parlare se non delle mie reazioni sentimentali davanti a cieli sterminati nascosti da veli neri di polveri. Questa sconfinata bellezza che so solo io, esiste davvero, e aspetta giorni migliori e intanto, con una lentezza preoccupante, predilige l’ottimismo alla sciagura. Ma intorno un frastuono di morte inquina le mie orecchie. Per fortuna o per scelta decido cosa e come ammirare le cose belle della vita. Quei capelli, per esempio, e quelle mani sicuramente. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, diceva Cesare, quello della canzone di De Gregori, che poi era Pavese. Chissà, pure da ateo incallito, vaneggio un’idea che da qualche parte ci siano tutti gli ultimi sguardi delle persone; una teca come un enorme scia di visioni che non muoiono mai. Magari, che bello che sarebbe consegnare ai posteri le immagini finali di ognuno di noi, che poi sarebbero iniziali per chi le guarderà. Frammenti che si compongono per il futuro. Ma sì, liberiamoci dell’attualità opprimente e desolante e affidiamoci agli sguardi altrui; aspettiamo una qualche luce tecnologica che ci faccia restare sospesi nel tempo.
Mio figlio mi ha detto che oggi la maestra gli ha raccontato di Leopardi e, chiedendomi cosa intendesse il poeta per “infinito”, sono partito con metafore e bla, bla, e lui: vabbè ma la siepe non l’hai detta. E io: che c’entra, quello era un simbolo, una barriera, etc.
In fondo è sempre stato così per me, figlio mio, sto sempre a cercare di scavalcare il presente, la siepe, le scogliere, la realtà. Domani analizzerò il muro che separa il mio giardinetto dal parcheggio, ché devo capire la componente di sabbia presente dove si è nascosta, e come ha fatto ad amalgamarsi con tutto quel grigiore.

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