Elena (la mia città)
Di notte i tuoi vicoli puzzano e
lasciano entrare tutto il giallo dolore, e tutti scappano via con le tasche
piene. C’era quel gobbo, mezzo parente, che parlava ancora il borbonico stretto e in tasca aveva
sempre un mucchio di soldi e cartacce. Mentre le donne di giorno, nella
controra feroce di silenzio, si scannavano tra di loro per rabbie preistoriche
mai patite del tutto. Mazz’mariegl’ è tornato, e bastona tutti i pescatori soli
per strada. Pure i miei zii che se ne vanno verso ponente con appresso un odore
fetente, e io dietro di loro a burlarmi delle loro anime tirchie di niente. E
io no, cari zii mai stati tali, statevene con la bocca piena e non parlate mai,
mi raccomando, come al solito; ma io non ci sto più.
Dopo i vent’anni non sapevo più che
fare nei budelli di quei vicoli, e mi giravo sempre di scatto per paura del
ratto, e di te che mi rincorrevi nera con le siringhe infette di Carlo; che
stavamo sempre insieme fino ai dieci anni: una volta, in prima elementare,
gl’ho dato la metà delle cinquecento lire che avevo trovato davanti al
giocattolaio di piazza Roma. Erano mie, di fatto, ma a una sua insistenza ho
ceduto: non volevo già farlo soffrire della sua morte prematura negli anni
novanta.
Prima in quei vicoli ci giocavo a
pallone per otto ore al giorno, come un impiegato o un operaio, e d’estate
anche il turno serale; cadevano i
friariegl’ dal cantone di pane che le nostre mamme coi vestiti fiorati servivano
pure agli dei lì di fronte. A Elena senz’altro, quella che la maestra Nardone
ci faceva descrivere su quei quadernini profumati. Ma non posso farlo ora, sennò Marcello sgama la nostalgia e mi sfotte, non posso far uscire ‘sta roba di
miele.
Le nostre case erano attaccate come
un enorme colorato formicaio, a volte puzzavano di pesce, ma solo tu la sentivi
‘sta puzza, ché non conoscevi il mare, ma solo la spiaggia, e tutti i fondali,
da me sempre evitati, ma tu non giocavi a
fare i pescatori sulle barche come me e Giacomo. Erano le cianciole, che
uscivano la notte a pescare alici, uscivano insieme a tutti quegli uomini con
le tasche piene e gli occhi di sangue. Le mogli restavano a letto sfregiate da
sguardi lontani nei mari già abitati. Donne che dopo i quaranta cominciavano a
zoppicare, ma senza cadere mai; si sa che senza sogni barcolli un po’ sopra
quelle strade di buche e lucide di pulito malato. Come lo era quella Maria che
lanciava i vasi coi fiori in testa ai
passanti, e poi urlava fino a svenire con la schiuma ai lati dell’enorme bocca,
come bandiera bianca da mostrare ai passanti, intervenuti a godersi la scena d’evasione.
Svenivo anch’io subito dopo, per l’incubo del contagio di secoli senza ragione,
che bussavano ogni mattino al mio portone. E no, bei pazzi miei, io scappo a
fare il ribelle, che pagano bene e ti lasciano pure la mancia nella tasca.
Avessi vent’anni ora non saprei cosa
fare per quei vicoli stretti e bui; forse mi metterei ad amare a ogni angolo, tanto
le sottane le vedevo anche allora stese come trofei lungo i fili infiniti di
finestra in finestra, di donna in donna, come ragnatele tese come candele. Come
vedevo pure quegli uomini che veloci tenevano le mani in tasca e non fumavano
mai, certo, non stavamo a Genova e neppure
a Marsiglia; li osservavo e squadravo ogni loro gesto, ogni loro delitto, e
subito dopo a immolare le mie spalle, guardando disperato l’ultima fessura
aperta tra la pietra nera e il mare.
1 commento:
Ho sentito la cosa nera e pure l'odore del mare. Grazie Pep
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