Stavo a terra e guardavo le nuvole
che si rincorrevano come cani al rallentatore. Intorno non c’era nessuno. Ai
lati dei miei piedi pompelmi e mandarini, fratelli amari messi lì da qualche
giardiniere sensibile, anni fa. Quando per le strade si usciva mano nella mano
e si mangiava la pizza il sabato sera, prima delle malinconie quiete delle
domeniche. Ah sì, era il tempo dei concerti con pochi soldi, almeno due o tre il
mese e poi il fine settimana in Umbria o un volo all’ultimo minuto per Londra. C’era
Gianni che offriva sempre la birra, il venti del mese, giorno godereccio del
suo stipendio. Antonia no, a lei mancava il coraggio di vivere spensierata ché
il padre aveva sempre sofferto di depressione bipolare, e non le sembrava
giusto godere di quelle esagerate libertà di quegli anni. Già, e c’era pure
Oreste che sentiva tutti quei brividi sulle braccia quando la notte rincasava e
ripensava ai racconti ironici, pungenti e azzeccati che Sandro narrava nei
locali pieni di fumo e vino rosso.
Mancavo io, che stavo già a pensare a
questo pezzo-testamento da scrivere, ma adesso ci sono, e mi ritrovo nel locale
con le pareti rosso scuro senza fumo e con vini solo biologici e per niente rilassanti. Non so cosa fare né da dove
cominciare a scalpitare per presentarmi brillante davanti a quest’ultimo atto
denso di attese che vedo correre al rallentatore come i cani bianchi dietro al vento.
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