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sabato 22 dicembre 2012

parabola nevrotica n°2


foto di Luigi Ghirri
 
Poi a quindici anni mio cugino mi chiede: ma ti piace almeno una cosa in particolare? pensaci, e la prossima volta che vieni, me la racconti. Stavo da lui per una crisi adolescenziale che s’innestava con problematiche famigliari. Punto. Racconto biografico sì, ma fino a un certo punto, eh! Insomma, questa domanda mi ha salvato dall’adolescenza. Addirittura? Vabbè, mi ha costretto a una scelta. O diventavo animalesco simpatico come tanti coetanei oppure diventavo un fiore di ragazzo. Nel senso di sbocciare e vedere cosa ne uscisse fuori. Nel tempo. Eccomi.

Ci ho pensato per una settimana, non facevo altro. Alla fine, con mio sommo stupore, risposi: fare il fotografo. Azz! Così, all’improvviso? Questo non me lo diceva mio cugino, ma una vocina malefica che mi portavo sempre appresso, che, per evitarla, scappavo prima di fare qualcosa di nuovo o in cui avrei dovuto esibire almeno un venti percento di me. Lui, mio cugino, che mi accoglieva in veste di psico-neurologo, era contento di questa risposta creativa. Allora impegnati, mi fa, con la sua barba che avrei dovuto fotografare come origine della specie: della mia specie, quella in evoluzione dal democristiano-paesano. Da quel giorno ho cominciato a comprare riviste e libri di fotografie. Pure una macchinetta, la Zenit, del blocco sovietico economico. Che non si sa mai. E sognavo. Di fotografare ogni cosa che si muovesse con stile davanti al mio sguardo. Son partito dalle tartarughe d’acqua che avevo in casa. Poi mia madre, mio padre, il lungomare, le strade di Roma. Quest’ultime tutte fatte di corsa, con l’angoscia che qualcuno potesse sgamarmi che stavo a Roma da solo. Ma dài, non lo sapevi che il mondo e i romani andavano più in fretta di te? Scattavo senza pensare, né con una grazia particolare. Scattavo e basta. E impegnati! Insisteva, giustamente la vocina. Invece correvo con la fantasia e avidamente mi studiavo tutta la collana  Editoriale Fabbri. Ghirri e Jodice, Giacomelli e D’Alessandro, e tanti altri fotografi che mi parevano quasi degli scrittori, comunque dei narratori…volevo diventare come loro. In barba alle mode, anche se loro intanto erano già verso nuove idee – vedi Jodice – ed io agognavo paesaggi e umanità anni settanta. Quelli stavano a Parigi o in America, per disintossicarsi dall’ideologia fumosa di quegli anni e io già volevo tornare indietro. Fuori tema, il mio stile.

Oggi apro Orwell e cosa vedo? Le immagini di Ghirri tra un pezzo e l’altro. Mi sono svegliato e ho pensato che quelle foto, insieme a certe persone, hanno contribuito a smantellare ogni vuoto di cui soffrivo: riempivo la sacca di sementi per scappare per sempre.

Mi vedo dentro lo scompartimento semideserto con la monografia nera davanti agli occhi, all’interno astrazioni magnifiche, essenziali figure da ficcarsi in testa per scacciare le miserie di quei tempi gonfiati e piatti.
 
 

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