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venerdì 21 dicembre 2012

parabole nevrotiche


   Me ne stavo lì con quella pezzetta umida a pulire quei tavolini tondi. Almeno decine di volte al giorno. Avevo tredici anni. Già non volevo andare più a scuola. Ah! la primina. Era inverno. Tutti gli altri ragazzini stavano con le gambe sotto i banchi, e agitavano quelle mani bianche che volevano toccare tutto. A me bastava osservare i personaggi stralunati che frequentavano il locale dove servivo. Diecimila lire al giorno. A mezzanotte in punto C. me li dava. Ero soddisfatto. Fino alla settimana prima mi alzavo alle tre di notte, e poi per ore tiravo una rete puzzolente insieme a vecchi di cent’anni, e mio padre.

    Volevo lavorare e diventare grande, senza passare dalla scuola. Lavoravo dalle tre a mezzanotte. Poi sono arrivato ai quattordici anni e mi sono lasciato convincere a tornare a scuola. A singhiozzo tra scuole e fughe, a diciassette anni, sono arrivato al ritiro definitivo, infatti, sul diario scrivevo già il mio futuro di Firenze; anzi, posso dire quasi definitivo, considerando che mi sono diplomato a ventisette anni e laureato cinque anni dopo - fuori tema, da sempre, anticipavo la fine. Riconosco che avevo una capacità particolare a tredici anni: di dare consigli, suggerimenti, e così facevo durante il tragitto locale-casa, a E., dentro la sua Lancia Delta, che percorreva il lungomare buio a dieci all’ora. E gli davo i consigli per la gestione del locale. Lui annuiva riflessivo, ora io a quell’uomo di trentuno anni che ascolta un ragazzino con quell’interesse, stimolato dalle sue riflessioni dopo la mezzanotte, oggi, a quell’uomo gli darei il nobel per la pedagogia speciale. Ero timido. Coi baffetti. A volte sbucava una roscia di diciotto anni che mi accarezzava per strada, e io mi paralizzavo, e sorridevo spaurito. Poi scappavo a casa a chiudere l'eccitazione. Insomma, fuori tema, sempre. Dicevo, E. mi ascolta e io mi sento compreso. Tornando a E. e a quel periodo, posso dire che investivo su di lui e sul lavoro al locale, come luoghi e persone da dove ripartire verso una clamorosa rinascita. Alcuni parenti mi avevano già segnato come irrecuperabile. E io recuperavo altrove, tra tavoli tondi e osservazioni minuziose dei profili degli avventori. E ancora, me ne stavo tra birre spillate e coni gelato alti come le mie speranze. Le lente chiacchiere dei clienti al banco, la bella musica che si ascoltava, e tutti quei racconti mirabolanti o tristissimi, che si mescolavano tra fumi di luci basse, nascendo da quei tondi tavolini. A cerchio. Ascoltavo. Li ho anche fotografati, appena dopo la fine della timidezza assoluta. Iniziavo a impormi, a far vedere una parte di me imprevedibile e simpatica. Ero strano. Bravo ragazzo, ma un po’ strano. Tutto intorno esplodeva e io recitavo una parte niente male. Andavo a letto con i complimenti di E. “hai proprio ragione, è una buona idea…”, e con tre cornetti alla crema avanzati dalla mattina, nello stomaco.  E diecimila lire sul comodino. Domani mi compro “Repubblica”, che, anche se capisco metà delle parole che ci sono scritte, mi fa sentire forte e pronto. A cosa? Alla vita che vorrei. Al mondo cui aderire col sorriso in faccia. Questo era uno dei consolanti pensieri che mi aiutavano ad addormentarmi su quel letto di formica.

     Poi, dopo alcuni anni di lavoro intenso, risate, amicizie inimmaginabili, amori celati, paure enormi, ecco, arriva lo sbrocco. Dicevo, dopo anni che sgobbavo lì, che costruivo la mia storia tra tavoli tondi e persone che adoravo, questi, C. ed E., ci fanno pagare il conto (salato) dopo aver mangiato e bevuto all’inaugurazione del nuovo locale che avevano preso in gestione. Che avevamo pulito noi, tra l’altro, nei giorni precedenti, noi, il gruppo dei camerieri e baristi del locale coi tavolini tondi. E no! Mi provochi dentro, tra l’amigdala e il fegato. Mica so’ scemo, sono solo un po’ generoso. Così, nel giro di una settimana li mando a fanculo. Senza ripensamenti. Dopo di me anche gli altri. Un gruppo che si sfalda come lava, anche se il mare poi ha raffreddato l’intensità nei mesi successivi, per loro, non certo per il mio orgoglio. Ora d’estate ogni tanto mangio i panini da loro, coi miei figli, e li osservo nella loro incipiente  vecchiaia, e allora mi scoraggio del mio ancora combattere – del mio sbroccare - contro altri mostri attuali. Poi una smorfia mi spinge a vedere la pace conquistata, con loro, e con il passato che ci univa.

 
     Ecco, questo circolo virtuoso che diventa improvvisamente lava incandescente mi dà da pensare, da sempre. Fuori tema, appunto. Improvvisamente, sì fa per dire, cari miei tre milioni di lettori abituali, poiché nel frattempo avevo digerito tonnellate di pensieri tormentati che si mescolavano, accoppiavano o litigavano la notte, poi al mattino, quello con l’impeto evoluzionista dichiarava: vuoi migliorare? Allora continua a sopportare, concediti soltanto un po’ d’onestà intellettuale e qualche gioia para-esistenziale, da mostrare agli altri senza pudore, notte e giorno. Il resto però gonfiava ogni cellula: le ingiustizie intraviste, lo sfruttamento implicito, in fondo quella presa per culo cattocomunista di sempre: stai con noi, il mondo sarà migliore per tutti. Eh sì, ma Loro intanto compravano case in Abruzzo o moto di grossa cilindrata, o case in Toscana, e collane d’argento alle loro donne. A me toccano le scorie del fallimento fiammante, e due o tremila parole frizzanti da dare in pasto agli amici. Ecco, la parabola nevrotica si è compiuta. Adesso, là fuori, sotto la pioggia, già fradicia e leggiadra, c’è una bambina col vestitino d’illusione che picchia duro alla porta.
Che dite, la faccio entrare anche stavolta attraverso la finestra rotta?

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