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mercoledì 5 settembre 2018

Giulia (Tonino e la Panchina)



  Questo porto non lo sopporto più. Vedo sempre le solite quattro barche vecchie con la ruggine che scende dai lati, con tutte quelle cime pelose che pendono e puzzano solo a guardarle, così come quel chioschetto infimo laggiù a sinistra, poco prima della pompa di benzina mezza abbandonata: i proprietari devono ringraziare i quattro pescatori puzzolenti se riescono a tenerlo in vita coi loro caffè corretti.
A Maria l’avevo detto: resto un paio d’anni, giusto il tempo di far innamorare bene bene Guido e poi scappo via con lui verso Bologna o Roma, o chissà dove
Proprio così le dissi quella sera che decisi di restare a vivere qui. Si stava tutti insieme spensierati su quella terrazza poco illuminata e piena di uomini con camicie bianche sbottonate e donne con vestitini sgargianti e sorrisi generosi, si beveva vino bianco e si rideva uno dentro la faccia dell’altro. Era estate, e davanti c’era tanto mare. Ero convinta che la mia vita avesse incrociato la fortuna di ritrovarsi insieme a persone belle, e un po’ strambe: questa scena della terrazza rappresenta bene come sognavo da ragazza la mia vita futura. Così desideravo immaginarmi da grande. Ma sognavo nel sogno. Ora eccomi qui sopra a questa terrazza maiolicata di blu e ben illuminata, con il grembiule nero fino alle ginocchia e gli occhi neri di matita che intimidiscono sempre un po’ gli uomini. Uso scarpe comode per correre svelta da un tavolo all’altro, dal martedì alla domenica, estate e inverno. Sempre qui. Mi rilasso un po’ la mattina al risveglio, sempre sul tardi, quando il sole già picchia e lascia poca aria in giro. Faccio colazione al bar di Maria; a lei sto raccontando i miei tormenti penosi di femmina. Con i colleghi c’è poco da fidarsi. Provano ogni giorno a sedurmi con racconti di vite mai vissute interamente da loro, o con quei loro slanci fatti di battute e sguardi per conquistarmi: cercando invano di scacciare la mia vecchia alleata apatia sociale. Tanto alla fine i loro poveri sogni di gloria si vanno sempre a nascondere nella federa del loro morbido cuscino di mammà, ancora prima dell’alba, quando con facce da bimbi provano a smarcarsi, almeno nei sogni, da mamme gigantesche: donne poco truccate, con il Tavor sempre in borsa. Figurati. Stavo, e sto qui, in questa cittadina salata e senza futuro, solo per l’ultima speranza di rivedere Guido e la sua pittura divina. Loro lo sanno, ma, poveracci, si mettono a competere anche contro il suo fantasma, pur di provarci con me, femmina da conquistare, secondo l’opinione di questi zoticoni di mare. Nei miei occhi neri invece lascio entrare volentieri i pescherecci che nel pomeriggio arrivano con le loro reti umide appese e piene di fravaglia, come i pescatori chiamano quei pesciolini senza qualità, e quindi senza commercio: come vedo io i miei colleghi camerieri. Valgono poco davanti all’eleganza di Guido, figuriamoci davanti alla sua pittura. Lui sa esprimersi con uno stile asciutto ma espressivo, così si distingue senza spocchia dalla moltitudine di pittoretti che sono in circolazione in questi anni barbarici. Così diceva quel critico di Firenze sul catalogo un po’ informale della sua ultima mostra. Maledetto lo stile e la mia ostinazione a volerlo bere come fosse limonata fresca. Speravo di baciare Guido tutte le mattine, per prendermi il suo stile, la sua unicità. Farmi contagiare ogni santo giorno come una santa col suo oppresso. Che scema, la solita scema ragazzina di trent’anni che beve cose di cui non conosce gli effetti né tanto meno il sapore vero, crudo e terribile della realtà che si appiccica ai nostri corpi. Niente, non capisco proprio niente, sarà la tara di famiglia.
Ecco questo golfo che diventa ogni giorno sempre più piccolo, con queste sue casette colorate una diversa dall’altra che tempo fa sognavo di abitare: qui avrei potuto scrivere pure un’altra Guerra e pace a puntate per il giornale locale, se solo avessi avuto l’opportunità di amare Guido. Lui amava il mare soprattutto d’inverno, ché d’estate scappava in Grecia, da quei suoi amici pittori squattrinati che stimava più d’ogni altra cosa. Di me, sicuramente. In fondo mi considerava una ragazza pigra e viziata da una famiglia di strambi, come mi disse quella volta durante una litigata. Ecco, credo sia questa la natura del suo rifiuto: scarsa considerazione di me, e del nostro futuro insieme. Anche se so di non avere prove al riguardo, Maria, dimmi tu allora perché mi ha poi evitato in tutti questi atroci e lunghi anni di separazione?
“In realtà non gl’hai mai fatto capire veramente che lo rivolevi così tanto. Allora lui ha fatto quello che avrebbe fatto chiunque: i fatti suoi. Che sono scelte, occasioni da cogliere, gesti umani legittimi, o no?”
“Maria, ma tu fai davvero? Stavo sempre con gli occhi addosso a lui, alle sue mani, al suo corpo …”
“Appunto! Cose vere solo per te, Giulia cara; tu hai fatto poco per prendertelo davvero.”

  Forse ha ragione Maria: ho sempre aspettato che le cose accadessero solo per la maniera con cui le guardavo e desideravo. La realtà ha vinto. Ora faccio la cameriera per quaranta euro a sera e aspetto il lunedì per scappare a Roma con la pazza speranza di incontrarlo. Frequento tutte le mostre o eventi culturali che propone la città, e dove possa esserci lui con la sua faccia un po’ triste a illuminare il mondo. E me.
“Giulia! Una margherita al tavolo uno. Dài, sbrigati”.
In questa pizzeria tutto è povero, ovvio e senza futuro. Vedi scorrere la felicità insieme alle pizze, che poi si ferma lì quella felicità momentanea, su quella pizza farcita sempre più in maniera esagerata: una volta c’era la capricciosa a fare la differenza, e poteva bastare. Poi guardo i clienti e capisco che la volgarità si sta mangiando il gusto, lo stile con cui avevamo fatto un patto, silenzioso, tra cittadini circondati da tanta bellezza e il resto del mondo.
Dentro questa pizzeria io adoro soltanto la storia di Kaled. L’altro pomeriggio sono stata a casa sua. L’avevo accompagnato a casa per via dell’acquazzone improvviso, e che andasse via in bicicletta con quelle ruote così piccole per le sue gambe, non mi andava giù. Allora mi sono fatta coraggio e ho messo da parte quel pudore che aleggia spesso tra me e lui, tra me e la sua cultura araba. Prima del caffè mi ha fatto assaggiare una sfilza di cose buone: dolci arabi, cocomero e gelato. Il caffè l’ha preparato la moglie, il figlio grande ha tagliato il cocomero, e il secondo ha servito i dolci. Gli altri due, tre e cinque anni, mi fissavano con due olive nere al posto degli occhi. Erano una famiglia, e condividevano così bene tutto quel poco.

Durante la notte, aiutata da una digestione lenta anche per tutto quel miele nei dolci arabi, ho sognato Adim. Da quella volta che l’ho investito su quella strada stretta di curve e vedute. Con quel potenziale omicida che erano le mie notti a base di alcol e cocaina, insomma, da quella volta ogni tanto mi torna in sonno a trovare: ha sempre il braccio ingessato e continua a venirmi a trovare con questa infermità, nonostante siano passati due anni da quell’incidente. Ora ha vent’anni, e sicuramente sarà tornato a lavorare ai mercati, con le sue braccia muscolose e veloci pronte a scaricare camion interi di frutta e verdure. Questa notte mi ha dato un bacio. Aveva lo stesso sapore di quelli che ricevevo nell’adolescenza. E mi sono svegliata di colpo in piena notte, poi ho bevuto un bicchiere d’acqua, ho preso due pasticche di valeriana e ho controllato le mail. Non si sa mai, che dall’etere arrivi qualche soffiata sulla mia disponibilità ad amare di nuovo.

Domani andrò a trovare papà in clinica. Domani gli dirò che deve trasferirsi da me. Non ha senso che continui a stare lì dentro, circondato da persone assurde. Lui sta bene oramai. E in fondo poi io, diciamolo una volta per tutte, non ho più speranze che Guido ritorni da me. È stata un’illusione che mi sono trascinata appresso anche per scacciare la decisione di ospitare papà a casa da me. Ancora mi spaventa l’idea, lo so, ma non posso più aspettare: lui invecchia e le nostre angosce si gonfiano sempre di più, dentro i nostri esili petti.
Domani all’alba vado e glielo dico subito, appena lo vedo. Altrimenti la sua tenerezza mi blocca come sempre, e poi comincia a raccontarmi di Tonino e delle sue smanie di conservare le vite degli altri nella testa: non sopporto più questo dipendere dalle scelte degli altri. Basta, papà deve venire a vivere con me, e non voglio sentire altre storie: questo devo dirgli con gli occhi più decisi del mondo.



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