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martedì 4 settembre 2018

Giulia e i ciliegi



   Devo scendere. Sì, alla prossima fermata scendo. Devo prendere aria. Qui sto scoppiando. Mi sta salendo un missile quadrato in gola. Stringo forte il barattolino
giallognolo: è lì pieno e stretto nella tasca del pantalone. Dentro c’è la mia calma.
Certo, potrei prenderle ora, ma sarebbe imbarazzante qui nella metro: stanno tutti già
a fissarmi con quelle facce appese. Lo faccio pure io di solito, di fissare il mondo di
persone che scorre silenzioso e serio sottoterra.
Fermata Cavour. È piccola, anonima. Anni fa volevo iscrivermi a una scuola di
fotografia appena fuori dalla fermata. Proprio qui mi toccherà prendere per la prima
volta le dieci benedette gocce di Tranquillirt. L’ha deciso il due aprile duemiladue la
dolce psichiatra del San Camillo, non di certo io. Insieme ai suoi materni consigli
fece scivolare dal suo tailleur grigio pure questo flaconcino già aperto: utilizzato
chissà per quale altro dramma. Quella sera dalle sue mani affusolate finì dritto nella
mia tasca. Da quella sera è sempre con me.
Adesso me le tracanno d’un fiato, alla faccia dei basagliani d’accatto, che non
sanno niente di Basaglia né dei rischi che corre la nostra mente certe volte: voglio
vedere loro in queste condizioni cosa farebbero. Una ragazza sensibile come me, una
brava lavoratrice, gentile pure con le tigri che all’improvviso, dopo trent’anni vissuti
normalmente, si ritrova ad avere un enorme panico che parte dalla testa e come un
serpente sguiscia per tutto il corpo. Per questo motivo fare sempre figure di merda,
scappando quando si sta tra gli amici, sempre con la scusa dei mal di pancia, o della
gatta rimasta sola in casa. E il mio ragazzo che non vuole più fare l’amore, e so pure
che va dicendo in giro “sembra ‘na matta, con tutte ‘ste paure che gli vengono
all’improvviso”. A dire il vero, solo quando sono al lavoro sono sicura, puntuale, e
non scappo mai.
Devo scendere e andare verso il primo angolo buio della stazione, oppure uscire,
insomma, ora devo farlo: prendere le gocce come una tossica, come mia madre. Sono
ormai dentro questa storia che non conosce pace. Dovrei finirla una volta per tutte coi
pensieri perdenti, sembrano veri ma in realtà sono come le menzogne del tuo racconto
che non hai il coraggio di scrivere fino all'ultima riga.
Scende la calma.
Già mi sento meglio, le gambe alleggerite e l’asfalto che si ammorbidisce
lentamente sotto i piedi. Le insegne al neon che si allungano come giganti bolle di
sapone colorate: mi pare di vedere la faccia rugosa e serena di mia nonna annuire là
in fondo al cunicolo nero. Arriva il dolce rumore delle auto che mi spinge a sedere
mollemente sul gradino freddo della scalinata, e tutto si distende e apre, sento gli
scooter laggiù allontanarsi al rallentatore.
“Ciao, volevo dirti che la matta stasera si è fidanzata col Tranquillirt gocce e
preferisce il suo sapore aspro nella bocca, la sua dolce sicurezza nelle tasche, al tuo
flaccido braccio peloso sulla mia spalla”.
Questo messaggio lo cancello, perché non lo capirebbe e starebbe poi un’ora al
telefono a chiedermi scusa, sbaciucchiandomi di sms; no, lo lascio stare con la sua
serenità da ginnico che si ritrova. Già, lui va a correre tutti i giorni, e in più passeggia
nel parco durante le pause pranzo, dopo che ha mangiato pizza integrale bio nel forno
natura&sapori. Lo odio. Fa il maschio, l’uomo brillante e rassicurante solo con le sue
amiche, quelle fidate, dice lui, quelle stronze penso io. Ma non glielo dico, perché
devo rispettarle, e perché faccio parte della generazione che ”devi essere amica delle
sue amiche, e anche delle sue ex” e tutte ‘ste stronzate che stanno in piedi solo dentro
ai discorsi dell’aperitivo, ma che poi nessuno ci crede per davvero mentre rientra a
casa la sera. Ecco, sono di nuovo agitata, ma stavolta non voglio cedere. Ancora
dentro a questo budello nero di metro, cammino lentamente con la mia borsa rossa
che sfiora altri fruscii silenziosi. Fisso l’intero vagone di occhi, cellulari luminosi e zaini afflosciati: l’esercito dei pendolari felici solo a letto, quando mettono i piedi
gonfi sotto il lenzuolo ghiacciato. Smorfio un sorriso e mi siedo accanto a una
vecchietta truccata male, eppure con un viso pieno di tranquillità.
- Prego signorina, si sieda qui.
E intanto alza la borsa marrone dal sedile e con una mano bellissima mi invita a
sedermi. La ringrazio più con gli occhi che con le parole. Mi siedo accanto a lei e mi
viene voglia di continuare il viaggio fino al laghetto dell’Eur dove passeggiare,
passeggiare sotto quegli infiniti ciliegi umidi. Una volta ci abbiamo portato i bambini
del Centro diurno, durante la bellissima fioritura d’aprile: correvano come pazzi
calpestando l’erba, spernacchiando le anatre. Quel giorno avevo corso, saltato, riso
come una matta e avevo abbracciato tutti, e anche Guido, l’altro operatore in turno.
Poi è sparito l'abbraccio, è sparito Guido e pure quell’emozione elettrica di amare per
un attimo e non piangerne abbastanza. In fondo era colpa dei ciliegi, con quei fiori
viziosi ad annunciare chissà quali follie primaverili in città.
Chissà se stasera i ciliegi mi aspettano ancora fioriti.

Scritto da Peppe Stamegna
2016

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