Pagine

domenica 26 agosto 2018

prove tecniche d'autunno


         Devo dimettermi, da me. In Italia non si dimette mai nessuno, ma io lo farò. Vorrei dimettermi dall’uomo che sono stato negli ultimi dieci anni. O almeno da quell’uomo che ha creduto di essere speciale. Spiego meglio. Ho fatto tante cose in questi anni, anni intensi in cui i miei capelli sono diventati brizzolati, ma volevo partire dalle parole, quelle che  hanno disegnato scene del mio mondo e sono arrivate agli occhi degli altri, che spulciavano nel mio blog. Niente, voglio ripartire dalle parole e dall’effetto che fanno verso gli altri (su di te). Ecco, questo è il punto, gli altri: io ho un bisogno infantile d’amore, lo so. Allora cercherò di dare un significato approfondito alle dimissioni annunciate all’inizio. Provo a dimettermi dal poppante che sono stato, e che in questi dieci anni ha preso le sembianze di uno scribacchino lirico, a tratti ironico, ma pur sempre tendente alla lagna pre-poppata. Forse il punto è un altro ancora: ho saputo scrivere di me, senza spocchia, con umiltà e ora sono sfiancato da tanto sforzo vano: perché non mi segue più nessuno, cazzo? Così va meglio, non ho bisogno di contradditorio io, ne produco dieci al minuto. Oggi voglio liberarmi di piccole verità e dare il ciuccio all'uccellino.
   Stanotte mi sono ricercato su google e ho capito che in questi anni avevo davvero bisogno d’attenzione. Di un amore diverso da quello che ricevi dalla tua famiglia o dagli amici, da tua moglie. Insomma, cercavo amore ma scrivevo che ne avevo già vissuto abbastanza nell’infanzia dorata, nell’adolescenza inquieta o nella giovinezza sfrontata e poetica: cazzate! Fingevo, come fa un bimbo insaziabile davanti ai seni rinsecchiti da lui medesimo. Poi, quando qualcuno coglieva sfumature di talento qua e là nelle vagonate di cose che scrivevo, allora mi ritiravo come una lumaca intimidita da una fogliolina che cade. Fingevo ancora di più, di non essere all’altezza, ma invece nella brace, tra i polmoni e il cuore , lasciavo bruciacchiare ogni residua modestia: sulla tastiera battevo i miei limiti, ma sulla faccia nascosta ingrossavo i miei desideri. Certe volte, dopo commenti positivi ma disinteressati che comparivano sotto i miei incessanti post, quelli che non provenivano da conoscenti, mi pavoneggiavo e pensavo al mio futuro di scrittore in camicia bianca sempre pronto a brindare con vino bianco da intenditore, nei bar del Pigneto al tramonto: cazzate! Intanto che fingevo questa condizione ridicola e lussuriosa, in casa, intorno a me,  trasmettevo finzione a reti unificate. Facevo l’ipocrita mettendo like ruffiani ma poi cercavo di bilanciarli spudoratamente con altri tweet autoironici, come se la derisione in differita facesse scomparire il mio gesto ruffiano e opportunista: volevo farmi notare come persona unica, come tutti. Anzi, a me non bastava che provenissero da centinaia e centinaia di persone nuove che non avevo mai visto, no, io volevo sollecitare i like della scrittrice, della regista, dei giornalisti che piacevano a me, solo a me. Velleitario, mi caricavo di quelle energie scintillanti leggendo quei commenti, like, retweet estorti con lunghe e sottili strategie social: facevo il simpatico. Intanto gli amici coi loro calici di vino del sabato sera, vini pregiati da supermercato, sparivano lentamente, come in un film di Muccino, ma al contrario. I figli, docili ma espertissimi di cose social, mi contraccambiavano con la stessa solitudine: arrancavo con loro, cercando lo stesso di rimanere un esempio, leggendogli i libri prima di dormire, ma intanto con le mie nevrosi brillanti gli stavo comunicando solo il mio fallimento a piccole dosi, come l’acqua fresca omeopatica: cercavo di risolvere il dramma con piccole scene drammatiche. Questo fino a ieri, l’altroieri per chi legge oggi. Ora, alla fine di questo periodo, cosa avevo intenzione di scrivere se non che ho esaurito le scorte di parole e se non mi metto a studiare (sul serio, cazzo!) da qui a un mese esplodo insieme a tutte le parole che non ho scritto ancora.

   Uno scrittore su Twitter definisce le prossime uscite editoriali immature, poiché trattano il tema genitori-figli in chiave di conflitto irrisolto. Fa sorridere, ma cos’altro stiamo a fare sui social, nelle nostre case, nei bar, davanti alle nostre scivanie Ikea? Non cerchiamo di dissimulare la nostra tenera incapacità di fare il passo avanti che ci emanciperebbe da questa bella vita sospesa, adolescenziale e gravida di ogni possibile destino? E che ci permette di cazzeggiare a quarant'anni come non si era mai visto fare nelle epoche precedenti. Almeno cazzeggiamo con stile, senza invidie, ipocrisie, conflitti d’interessi: amiamoci di più, cazzo. Non ci somigliamo un po' tutti nelle nostre nevrosi sporche di umanissimo snobismo?

            Pezzetti di racconti estivi

   Entrati nella Valle dei Templi, avevamo gli occhi spalancati al massimo per far entrare tutto quel mondo invecchiato benissimo. Davanti al Tempio della Concordia tutto rosaceo, siamo rimasti in sospeso anchr noi come colonne doriche. Mio figlio piccolo era tutto rosso di tramonto e scattava foto, e girava intorno alle colonne e le osservava come si osservano certi giocattoli sacri dell’infanzia: un posto dove l’atmosfera è fatta d'aria propria, che già in biglietteria scompare. Mio figlio inciampava, saltava e rideva per tutta la curiosità che respirava. Per quanto mi riguarda da lì a poco, dopo lo stupore di stupirmi a osservare l’anima in trasparenza di mio figlio, e il vedere mia moglie diventare più bella con quei riflessi rosacei, mi sono ritrovato nel parcheggio tra gli ulivi senza le chiavi della macchina. Mi metto a piagnucolare, poco prima avevo lasciato per una mezz’oretta lo zaino incustodito su un muretto a secco: ecco, si sono prese le chiavi, ripetevo al buio tra gli ulivi e circondato da minacciosi latrati. No, scemo che sono, la macchina è lì, coi suoi 220000 mila km in corpo. Mi avvio verso mio figlio e mia moglie con fare da disperato. Mia moglie, insieme al custode del museo mi ripetono come due infermieri di calmarmi e controllare nelle borse. Niente, non ci sono le chiavi. Sono le ventitré, stanno uscendo tutti attraverso i viali illuminati con luce fioca dei Templi, lo spettacolo teatrale in siciliano sta finendo, ci siamo io e mio figlio con le torce dei cellulari fiondate su quei viali che abbiamo percorso poco prima felici e stupiti di meraviglia greca. Montiamo sopra un taxi elettrico, con la complicità di un vigilantes originario del Piemonte: ma che ci fa qui? mi chiedo, tra una boccata d’ansia e un pianto strozzato. Anche nei momenti peggiori me ne sto lì a scervellarmi del perché uno stia lì, in quel momento, davanti a me, invece di stare in un altro posto: mi fisso con le scelte che fanno le persone, lo faccio da sempre. Insomma, entro nel bar dove eravamo stati poco prima e il barista alla mia domanda “avete trovato un mazzo...” mi mozza la frase rispondendo: ma la capa dove ce l’hai? ecco, la capa ce l’ho impegnata a pensare le scelte cruciali che fanno gli altri, con tutti i sentimenti che ne conseguono. A questo punto abbraccio mio figlio, e me lo tengo abbracciato lungo tutto il viale, mentre mi preparo a ricevere il giusto cazziatone da mia moglie. Poi ci ho parlato col vigilantes, facendogli una specie di intervista come non facevo da anni: un tempo gli amici mi chiamavano Marzullo. Del vigilantes ormai so il perché della sua scelta di vivere ad Agrigento, ma quello che non so ancora me lo sono immaginato dopo in macchina. Ma del perché proprio lui fosse lì, in quel minuto che io perdevo le chiavi e lui, gentilmente, con l’accento nordico, mi rassicura e aiuta come un angelo terapeuta con la faccia d’attore di film alla Banfi, ecco, questo non lo so ancora e per saperlo  forse devo scrivere e scrivere fino alla fine. Perché stavo lì davanti a lui, in quella notte di luna tagliata a metà che si stagliava sulle colonne d'Ercole?

   Al rientro in auto sfiorando paesi con nomi montalbaniani, continuavo a pensare al perché fossi lì, e non a San Vito Lo Capo come tutti gli altri, in questa estate 2018. Lo sapevo in realtà: perché dovevo risarcire il figlio grande per la mia disattenzione di questi ultimi anni di scrittura e paura: dovevo restituirgli un desiderio. Per farlo abbiamo preso una casa sgarruppata, sul mare però, a Scoglitti, terra di seconde case di contadini arricchiti sfruttando, oltre che la biotecnologia, anche tanti immigrati affamati di stabilità. I nostri vicini di cortile avevano una età media di settant’anni, claudicanti come noi, seppure noi solo d’animo per un inverno pesantissimo alle spalle. Quel mare increspato di schiuma che alla lunga ci ha stufato e, grazie a questo nostro stufarci per tempo, ci ha permesso di vedere paesi dell’entroterra che solitamente mi fanno pensare: chissà come vivono d’inverno queste persone. Passeggiando per Ibla mi è salito un sentimento folle di volerci vivere almeno un mese dentro quelle casette barocche di ringhiere e di misteri, magari a gennaio, quando ci restano a vivere in tremila, come mi aveva detto con un certo sollievo il barista poco prima che mi uscisse dalla bocca questo desiderio. I figli davanti a certe frasi mi danno retta e rilanciano ipotesi di vita diverse dalla nostra: si affacciano con me su balconi di fantasie. Questo filo, questa follia, mi unisce a loro, oltre che per un convinto disprezzo per Salvini e il suo bullismo oramai imperante anche nei bar. Mia moglie ci osserva arresa, ma rincara la dose contro Di Maio, a cui dedica un “scappiamocene a vivere in Spagna”. Ci siamo divisi per bene anche le idiosincrasie, in famiglia.

   Interno, mercato del pesce di Scoglitti. Stiamo davanti alla banchina delle barche zuppe di pesce, accanto a un faro: di fronte un bar e due strade che scendono parallele. Compriamo una cassetta di polpi di scoglio, pescati un’ora prima. Paghiamo e scoppia il temporale. Ai lati, e poi anche al centro, di questa enorme zattera di cemento pieno di pesce appena pescato e con persone bramose di comprarlo, scorrono fiumi d’acqua. I tombini saltano, siamo tutti intrappolati. Comincio a fissare la Razza gigantesca e il suo sguardo pacifico, poi passo in rassegna le facce preoccupate dei pescivendoli con le loro scope inadeguate per deviare l’acqua. Il mare intorno è placido, nero. Un coglione parcheggia con un Suv gigantesco davanti all’ingresso creando una deviazione d’acqua verso la zattera-mercato: i pescivendoli pescatori urlano in siciliano stretto maledizioni che gli fanno prontamente inserire la retromarcia. Un’acquirente vogliosa di pesce fresco come noi è preoccupata per i suoi genitori bloccati in auto, a cinque metri da lei, ma che non si vedono per la pioggia e in parte anche per il Suv di prima. Mia moglie cerca di consolarla, io continuo a circumnavigare la zattera di cemento e noto che solo alcuni metri quadri sono rimasti non allagati d’acqua sporca piovana. Trattengo l'ansia pensando alla sfiga poetica dei Malavoglia, ma mi sale una voglia assurda di cannoli siciliani con la ricotta messa dietro le quinte dei bar.
 La nostra macchina è semisommersa, fino all’altezza del marciapiede, così, quando decidiamo di sfidare i torrenti di fango per andare a casa, dove era rimasto il figlio a leggere Giamburrasca, ci paralizziamo di paura e aspettiamo. Poi i neuroni genitoriali ci spingono a partire, ma ci ritroviamo ancora fermi sul lungomare allagato: è diesel, si rovina, impreco da genitore che deve poi ricomprarsi l’auto. Riusciamo a sentire il figlio, aveva come spesso accade il cellulare silenziato, dice di stare in casa: è salvo, urliamo dentro, ma senza sfiorare il ridicolo di dirlo ad alta voce. Chiediamo indicazioni per strade secondarie e dopo dieci minuti ci ritroviamo sull’uscio di casa con una busta di polpi e con degli occhi a fanale sul figlio: sei vivo, stavolta quasi scappa fuori il suono ridicolo di due comici spaventati genitori.
   I polpi erano buoni, mangiati col limone, come aveva suggerito Camilleri ai suoi paesani quando è tornato a trovarli dopo anni di esilio romano.
Mio figlio aveva divorato Giamburrasca e le sue avventure, invece delle nostre rideva senza appassionarsi più di tanto. Allora ci riproverò, scrivendogliele meglio domani.

4 commenti:

Marani ha detto...

Non sono una scrittrice, non sono una regista, neanche una giornalista ma leggo quello che scrivi e mi fa pensare e provo a compararlo con il mio presente e le mie inquietudini. È bellissimo che tu riesca a mostrare quello che sei anche in questi comtesti e con questa immediatezza. È questo il senso. Grazie Peppe

peppe stamegna ha detto...

Grazie Marani... Sto cercando di non dipendere dal giudizio della scrittrice, ecc. Quindi, ti ringrazio molto di questo tuo commento bello.
Ciao.

Unknown ha detto...

Caro Peppe , scrivi in modo trasparente e disarmante ,con una semplicità che è propria solo di chi ha interiorizzato molteplici letture. Ogni volta che scrivi ti confessi e ti metti a nudo con un pudore trasparente e profondo.

peppe stamegna ha detto...

Grazie, lettore o lettrice anonima, sì, credo sia anche per aver interiorizzato e sedimentato tonnellate di sentimenti in questi anni.
Grazie, mi ha fatto piacere leggere questo commento