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domenica 14 agosto 2011

Raccontare stanca





Antonio aveva le idee chiare, io un po’ meno. Ricordo quella volta che mi ha raccontato la storia dei due cugini svedesi. Questi erano rimasti tre giorni da soli sopra un fiordo. Stavano con la tenda. Il fiordo era a malapena segnalato sulle mappe militari. Quel pomeriggio le due famiglie avevano deciso di fare una gita con la loro barca alla volta di un’isola più a sud. I due cugini, oramai adolescenti, e con spirito scandinavo, s’incaponirono a restare là: andate voi, tanto sappiamo cavarcela e poi stasera starete di nuovo fra i piedi, non è vero? E così le due coppie, con altri tre bambini dietro, decisero per la crociera pomeridiana. Un ventaccio nordico improvviso decise la sorte del tragitto e così si ritrovarono a centinaia di miglia dal punto di partenza. E dai ragazzi. La prima notte fu da incubo. I soccorsi cercavano di sfidare le condizioni atmosferiche davvero terribili, ma non era facile raggiungerli. Il giorno seguente i due ragazzi, dopo che erano rimasti abbracciati tutta la notte, riuscirono a organizzarsi e così fecero per gli altri due giorni, fino al ritrovamento. Antonio descriveva proprio bene le emozioni che i due giovani vivevano. Pochi cenni sulla disperazione dei familiari. A lui importava soprattutto la condizione di estrema solitudine dei due ragazzi.
 Insomma, sta di fatto che la notte ho avuto un incubo: io e mio fratello che ci risvegliamo soli nella nostra casa d’infanzia. I nostri genitori scomparsi nel nulla. Nessuno che ci dice come stavano le cose. Il terrore sulle nostre facce allungate della notte. La storia di Antonio era penetrata.
Da quel giorno gli facevo sempre ‘sta domanda: “ma ‘ste storie le inventi tu? Ma le hai scritte da qualche parte?” lui faceva un po’ il misterioso e un po’ il timido. In pratica non dichiarava nulla alla stampa. Altro che Salinger. Questo era proprio corazzato dietro al suo ruolo d’informatico modello. Si usciva pure insieme, alle volte lunghe passeggiate sulla spiaggia di notte. Parlavo soprattutto io, delle mie ansie legate al lavoro. Delle mie delusioni per certi amici negli ultimi anni. Di lei. Invece Antonio parlava o di pettegolezzi leggeri su alcuni amici in comune, oppure all’improvviso, senza neppure annunciarle, raccontava storie. Quando lo faceva potevano prendere anche un’intera serata. Con tanto di descrizioni psicologiche a margine. La sua faccia in quei momenti diventava un foglio increspato su cui scorrevano le parole con fretta di uscire, ma senza inciampare. Si davano la mano una con l’altra come una scolaresca in gita.
                Non riuscivo più a trattenermi e gli ho chiesto: “Ma sei tu quello che pubblica i racconti sul sito della libreria Mondadori?” e lui “Ma si scem’, non mi voglio mischià con quelli, stai fuori strada amico mio”. Insistevo: “Allora hai copiato la storia a quello che si firma Pasqua, la storia è simile a quella che mi hai raccontato tu”. “E l’avrà sentita qua o là, mica le racconto solo a te. E poi che non lo sai che gli scrittori fottono le storie?”. Mi aveva anche un po’ convinto, così non ci ho dato più peso. Poi la sera. Un botto tremendo in quella piazza. Le aiuole si sono ritirate impaurite da tanto dramma; eppure gli alberi, come ombrelloni chiusi nelle sere d’estate al mare. Sono arrivato sul posto circa mezz’ora dal fattaccio. Il suo corpo ancora paralizzava l’intero selciato. Tutto il quartiere restava immobile, ed io ancora di più. Antonio, allora sei tu che pubblichi?
Il giorno dopo il funerale comincio a fare quello che non mi era riuscito di fare per bene prima dell’incidente: capire dove teneva i racconti. Per fortuna avevo il suo PC di fronte al mio, almeno quello che usava a lavoro. La password la conoscevo perché me l’aveva data lui qualche tempo fa; doveva partire per un viaggio in Danimarca, dove sarebbe rimasto circa un mese. Diceva per conoscere meglio la cultura nordica, ma per me e per buona parte degli amici in comune, per una bionda danese conosciuta a Baia Domizia l’estate scorsa. Tant’è, mi sono ritrovato con questa password per emergenze, in pratica per sostituirlo al suo PC in caso di richieste urgenti da parte del capo. Non si sa mai, così mi ha detto prima di partire. Era sempre diligente a lavoro, un impiegato modello e affidabile. Anche se qualche ombra se la portava a spasso per l’Europa. Durante la prima giornata di scavo ho ritrovato solo qualche appunto su resoconti di viaggio, in una cartella denominata parole raccolte. Bah, e le storie dove le ha raccolte? Non era facile tirare fuori le cartelle nascoste.
Quella sera stessa dopo aver passato un’intera nottata con Anna, una nostra amica in comune, che in passato è stata molto intima ad Antonio. Facendole mille domande su di lui ho capito che Antonio aveva fatto del mistero intorno alla sua persona, un’arte.
L’indomani ho speso interamente il mio turno a cercare cartelle nascoste. Niente. Forse sarebbe il caso di recuperare il portatile. Ma come? Oramai il suo monolocale è diventato un monastero per la madre. Da quel giorno si è trasferita là: nel paesino molisano ci torna solo nel fine settimana. Forse anche lei sta scavando qualcosa nella storia del figlio. Potrei con una scusa andarla a trovare, pensavo mentre arrestavo il PC ormai stremato di Antonio.
Arrivo al secondo piano di quel palazzone verde e grigio, e mi ritrovò sulla porta una donnina nera da capo a piedi. Dallo strofinaccio che ha in mano capisco che sta togliendo chissà quale polvere. La casa brilla, Antonio non era certo un disordinato come me, ma una mamma del sud sa come anticiparla la polvere: una sorta di protezione antipolvere che sprizzano i suoi ormoni. Così mi ritrovo seduto con una birra già stappata davanti. “Signora non bevo”. “Ah, non hai sete? allora ti preparo da mangiare. Vuoi una fettina di carne o una pastasciutta?” “No, niente grazie lo stesso. Sono venuto per prendere una cosa che doveva darmi Antonio”. Prima di darmi una risposta, la minuscola signora comincia a singhiozzare silenziosa. Comincio lentamente a girare lo sguardo a trecentosessantagradi, per non incappare nell’effetto domino. “ Fa pure, non ti preoccupà, so che eravate compagni”. Ringrazio per la stima e guardo in giro. Non vedo il portatile. Non resisto: ”Signò, ma il computer?” “Se l’è preso la sorella, dice che lo porta a Milano”. Cazzo, a Milano no. Neanche finisco di disperarmi che noto un foglio sulla scrivania: Corso di scrittura creativa condotto da Antonella Lattanzi. Me lo infilo in tasca. Saluto a dovere la signora e scendo di corsa le scale. Illuminato dalla vetrina del bar mi leggo tutto il testo del volantino. Il corso era già iniziato, quindi Antonio aveva partecipato almeno a tre lezioni. La prossima c’è domani. Mi iscrivo per telefono. Subito. Recupero qualche parola. Una frase. Uno sguardo rivelatore quando dirò che ero un suo amico. Fa niente che in questo periodo sto proprio lontano dalla scrittura, però leggo, e so pure ascoltare.
Il corso costicchia un po’, almeno per quelli come me che a fine mese è tutto un divorare scatolette del discount. Nemmeno si usano i piatti in quei giorni. Vabbè non divaghiamo, in fondo devo frequentare un corso di scrittura che avrà sicuramente regole e ritmi da rispettare.

Mi ritrovo un mercoledì sera piovoso dentro a una libreria lunga e stretta, con tanti libri pronti a farsi sfogliare. Sono teso, devo introdurmi dentro a un gruppo già formato. Lo stesso terrore che ho già provato quando alle elementari ho cominciato dalla seconda, poiché la primina la feci dalle suore. I primi giorni mi nascondevo ovunque: sottoscala e bagni si prestavano bene. Ma qui non ci sono. Vedo persone che parlano tra di loro. Chissà chi è la docente. Chiedo alla libraia, e m’indica di seguire il gruppo che scende rumoroso una scala di ferro. Mi avvio. Arrivato in fondo alla stanza e capisco che il ritrovo ha forma di bunker: un ripostiglio ripulito bene, con lo spazio letteratura per l’infanzia a riempire le pareti; in fondo questi del corso sono i presunti bambini della letteratura italiana. Bah, di primo acchito non direi: l’età media non lascia dubbi. Oddio, c’è qualche faccia fresca, e pure qualcuna simpatica, ma la media la fa la matematica, non le impressioni. La docente è giovane, sembra una scuola capovolta: i giovani che finalmente tengono a bada le presunte velleità della vecchia classe dirigente. Ma Antonio dove si sedeva? e cosa diceva tra queste persone con cartelline rosse e facce in attesa di informazioni preziose? Vabbè, scelgo quella sedia. Il tipo rasato sembra un po’ più accogliente degli altri. Ci provo.
Che serata strana. La docente parlava continuamente di un filo rosso da mantenere. Valutava garbatamente alcuni scritti degli allievi, sottolineando l’importanza di sapere cosa si voglia dire, e dove si vuole arrivare, quando si scrive un racconto. Alla fine hanno accennato alla scomparsa di Antonio - senza scivolare nel patetico - leggendo un suo breve racconto:

Una sera in Danimarca ho pensato ai miei amici in Italia. Poiché sapevo di deluderli ultimamente, per farmi perdonare mi sono guardato tutte le loro foto che avevo sul PC. Per ogni foto concedevo due minuti di osservazione e circa dieci per scrivere impressioni a caldo. Alla fine ho pianto: non avevo le parole giuste per descriverle. Ma ribolliva dentro una voglia di raccontarle.  Questo triste esperimento mi aveva procurato uno squarcio nella mente. Stavo sempre a pensare quello che mi diceva Gianni: dove le hai scritte queste storie che racconti? Per orgoglio non gli dicevo il vero, che non ho mai scritto veramente nulla, raccontavo e basta. Almeno negli ultimi anni, da ragazzo per un periodo mi ero fissato che dovevo scrivere un libro. Avevo già trovato il titolo: I contrasti nell’era della pop art. Poi negli anni tutto era svanito nelle fatiche dei giorni lavorativi, nelle incomprensioni famigliari. Nell’ambientamento lungo e stressante di Roma. Per lei.
In fondo quel ragazzo ha mantenuto un filo teso dentro di me: una terribile necessità di raccontare. Così nel tempo ho fatto il narratore da bar. Dicevo che erano storie lette tanto tempo fa, che romanzavo un po’, e che non mi ricordavo più i titoli, né gli autori. Riuscivo sempre a distrarli da questa bugia con la storia narrata. Ci cascavano, turbati e a volte allegri, nelle storie. Così per lei.
Poi quella sera a Copenhagen con le lacrime che comandavano la scena. Volevo scappare da quel fantoccio zuppo di pianto, e pure qualcosa mi tratteneva. La mattina successiva ho capito il perché. Ero arrivato alla fine. Ripartivo dalla fine per liberarmi del mio orgoglio. Come un pazzo mi sono messo a scrivere racconti, ognuna per una faccia che avevo osservato la notte precedente. Queste storie non le ho più lette. Le ho spedite tutte a mia zia che abita a Napoli. L’unica che davvero mi stima fino in fondo e che ha intuito qualcosa di buono su di me. Ora sono lì. Le ho chiesto di non aprirle per ora, di aspettarmi che un giorno gliele avrei lette io: in una serata tiepida di giugno, quando il profumo dei gelsomini è svanito e lascia lo spazio ai più sobri frutti del pesco. Però prima di leggerli voglio frequentare il corso di scrittura. Magari sciogliermi dentro a un gruppo sconosciuto e raccontare storie col mio nome in basso a sinistra.
Peppe Stamegna primavera 2011

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