L’afa che fa?
Mi lasciavo spezzare dal caldo. Rendevo protagonista l’afa nel mattino più
lento dell’anno. Ma come, solo un mese fa hai proclamato all’intero blog la tua
estraneità al lamento, e ora, in solitudine, ti lasci intrappolare dalla
malinconia così facilmente?
Ma come?
In realtà preferisco il
silenzio martellante del caldo al dover sempre tenere la parte; non che non mi
diverta a cazzeggiare come si deve, no, ma succede che delle volte poi perdo il
controllo, e me ne resto seduto sul letto con una battuta in bocca alle due di
notte. E non sta bene.
Per esempio Antonio sapeva
dividere la giornata in due parti. A volte, quando è necessario, anche in tre.
C’erano la parte razionale-lavorativa e quella fancazzista-creativa. Ogni tanto
si aggiungeva quella sentimental-erotica. Eleonora lo chiamava un giorno prima
“domani ci sono anch’io nella tua giornata, segnatelo”. Antonio pare
precisissimo, ma è solo perché è capace di organizzarsi. Sono gli altri che
stanno ancora all’età della pietra, coi loro pipponi romantici “che prima ci si
divertiva di più, mi ricordo…si stava meglio…”. Davvero, e che hai ottocento
anni? Questi si ricordano pure gesùcristo in croce, e le facce dei ladroni…bè,
questi Antonio non li sopporta proprio. E fa bene. Lo stanno sempre a sfotté
quando esce da casa sua con la bicicletta elettrica. Gli fanno pernacchie pure
sotto al bar di Teduccio, che lì so’ uno più strambo dell’altro. Eppure. Che ti
credi quello tira dritto come un mulo, e ride sotto i baffi di tanta ignoranza
aggratis. Che c’entra, ci sono anche le serate che piange prima di mettersi a
letto: si lascia commuovere dai romanzi che divora dopo cena. Dopo si ripiglia
e manda mail-recensioni su quello che ha letto: deve condividere. Questo
gliel’ha suggerito lo psicologo. Mica ieri, ma quando aveva quindici anni e
aveva subito un piccolo trauma. Aveva bisogno d’aiuto e l’Asl era pronta a
darglielo. L’aiuto, ché lo psicologo glielo dava solo una volta ogni due settimana e per un’ora soltanto, ma lui se le
faceva bastare. “Antonio devi imparare a condividere, solo così potrai ambire a
una pienezza”. L’aveva sempre in testa questo monito. Sempre con sé, anche nei
giorni peggiori. Anche. In verità se l’era segnato sull’agendina di quell’anno
– le aveva tutte conservate per bene – anzi, aveva cominciato a conservarle
proprio quell’anno. Anche se dopo la sorella gliele ha lette tutte, quando non
abitava più nella casa dei suoi. E già, ora ricordo bene, me l’aveva raccontato
ma senza rancore. Insomma, la frase dello psicologo della asl, anzi, all’epoca
era usl, l’aveva proprio colpito e si
era incaponito prima a capirla per bene, poi a metterla in pratica nel tempo.
Non è che si metteva a fare il francescano di punto in bianco, e no, troppo
semplice fare come Giacomino che andava in chiesa tutti i giorni e poi la sera
strapazzava di schiaffi e pugni i tre figli maschi; e pure la moglie, quando
era nervoso. Lui voleva imparare a condividere le cose che desiderava dividere
con gli altri; a partire dal sesso, così che pure le pippe dell’adolescenza
erano di gruppo; per finire col lavoro, che quando aveva l’intuizione buona
chiama gli altri e ad ognuno lasciava fare un pezzetto. Poteva farlo da solo,
piano piano, e una volta concluso farlo vedere al capo e fare bella figura. No,
lui chiamava Laura o Riccardo, Francesco o Giuseppe, e spiegava l’idea. Poi
tutti sotto a fare la cosa, che poi loro nel frattempo dimostravano interesse e
gli davano molto credito, e lui si caricava di più, così la soddisfazione era
doppia. Così diceva lui. Con Eleonora funzionava alla grande. Non serviva
sedurla ogni volta, era sedotta dal principio: dal primo gennaio 2000. Da
quella notte questa donna alta quanto lui, riccia e qualche volte bionda; con un
contratto per una casa editrice, dopo anni di lavoretti a cottimo per piccoli e
medi giornali, di provincia e di città, si è ritrovata dentro la casella di
posta un’offerta di lavoro che nemmeno nella Milano degli anni sessanta si
poteva sperare. A Milano, appunto. Però. Antonio subito la correggeva: non però
ma meno male che si sono accorti ora che sei brava. Altrimenti arrivavi in
vecchiaia con l’acidità dentro le maniche della camicetta bianca panna. E ci avevi
pure ragione. Dell’acido. Sai scrivere meglio di M. di C. e di O., ma loro
scrivono per D. per C. e anche per R. e tu stai a scrivere barzellette per le
agendine nere tascabili. Echeccazz.
Una mattina si è
svegliata nel letto di Antonio, di colpo, e ancora con gli occhi chiusi ha
urlato: STRONZA! Antonio si era spaventato, e, una volta che si è svegliata per
bene, le ha chiesto cosa aveva sognato di così brutto, sembravi proprio
incazzata: ‘na cosa da pazzi. Lei dopo il terzo caffè, visto che la notte
avevano praticato tutto il sesso del mese - ché non c’era stato modo prima poiché
lei era stata una settimana alla fiera di Francoforte - con un guizzo del
cervello era andata a ripescare tutto il sogno intero. Lui aveva dovuto
prendersene altri due di caffè, per sostenere l’ascolto del racconto che era
cominciato alle nove e dieci e finito alle dieci e venti. Che poi in sintesi si
trattava di un ex collega di master – gran pompinara di capiredattori – così a
un certo punto l’ha epitaffiata Eleonora, che era diventata all’improvviso
direttore di un giornale nazionale. “Ma chi quella, che mi chiedeva sempre gli
apostrofi dove si mettevano e non sapeva neppure chi fossero i giornalisti storici italiani; durante
il sogno a Eleonora toccava la parte della segretaria, con tanto d’occhiali
tondi e di unghie laccate ogni giorno dall’estetista sotto al giornale, “dove le
trovi tutte lì, quelle raccomandate…”, e così toccava andarci pure a lei. Il
racconto era genere Harmony, che pure lei schifava, in quella dolce mattina
d’aprile. Ma cosa doveva fare, non raccontarlo? Quello così usciva dalla bocca,
mica poteva cambiare l’ambientazione per fare un piacere all’ascoltatore
Antonio. Vabbè, meno male che poi un caffè ha chiuso definitivamente la
mattinata. Quel giorno la parte sentimentale Antonio l’aveva svolta per
l’intera giornata: c’era da festeggiare il primo stipendio milanese di
Eleonora, che nonostante lo stipendio, e tutte le soddisfazioni che aveva nella
testa, ancora faceva ‘sti incubi legati al periodo sfigato della gavetta, che
pareva eterna. Ma non a Antonio, ché aveva sempre creduto alla sua forza.
Sempre. Da quel capodanno.
Poi in un giorno afoso di
settembre, con i fichi d’india dappertutto che sentivi le spine solo alla
visione, Antonio mi ha raccontato che la sfiga non esiste: sono coincidenze
geometriche che impattano su di noi. E io: vabbè, ma se ti bloccano una
promozione lavorativa, e il giorno prima ti si rompe pure il videocitofono e
poi l’indomani il telecomando del cancello? Allora mi chiedo: qui qualcuno vuole sbarrarmi la strada. E
lui: see, le cose accadono perché devono accadere, come diceva Lindo nostro,
evidentemente avevi il cancello difettoso e il videocitofono di merda. Su, e
dai. Poi lo sai che nel settore del
sociale l’umanità è direttamente proporzionale allo schifo delle strutture che
gestiscono in giro. Letteralmente parlando. Così diceva, e un po’ mi ha
convinto. Già.
Così mi sono ritrovato
dentro a una poltrona scomoda a pensare. In effetti, aspettavo un pensiero. Di
quelli che arrivano all’improvviso e sbrogliano tutto. Appunto. Se uno si mette
ad aspettare i pensieri, allora c’è davvero poco di buono in arrivo. A decidere
in quel momento ci pensa il pensiero dominante: la solita lotta animale. Così
col nodo in gola ho deciso: faccio passare tutta la sfiga e, aspettando solo un
secondo in più, affronto tutta la questione lavorativa. Sì, so quando passa la
sfiga così come so quando passa una passione. Il mio fiuto è di quelli che hanno
vissuto spesso in balia dei sentimenti. Antonio dice che fino ai vent’anni è
normale, poi, una volta che ci siamo attrezzati per le cose della vita, tocca
stare dentro ai sentimenti. Non sopra sotto o fuori. Ma nel suo vortice. Anche se
lui dice che delle volte è dovuto ricorrere a periodi di stacco, di
riflessione, prima di aggiustare i tormenti in ragionamenti. Embe’. Questo è il
periodo in cui ho bisogno di riflettere anch’io. Anzi, quasi quasi scrivo una
mail proprio ad Antonio. Quello mi aiuta, lo so, solo che, in effetti,
l’orgoglio stavolta mi blocca. Preferisco andare da Raffaella, ché quella mi
accoglie nella sua casetta e la trasforma in uno studio a metà tra quello dello
psicologo e del chiromante. A volte, quando è necessario, anche quello dell’avvocato.
Gratis, pure. Mo’ ci vado. Anzi, prima
mi faccio un caffè. Così ho lo sprint per affrontare il viaggio. Poi, una volta
arrivato al Pigneto, me ne faccio un altro forte e lungo al baretto all’angolo.
A casa Raffaella ché non me lo offre? Allora sto a tre, e così posso cominciare
a ragionare. Magari. Prima sarà uno sfogo di parole, poi mi tocca ascoltare i
suoi consigli morbidi. Poi ricomincio a parlare, più calmo, visto che l’effetto
caffè sta finendo, e chiarisco che io sono parte in causa, mica solo la
vittima. Così mi ha insegnato Antonio, ma a lei non lo dico, poi si offende e
abbassa l’attenzione. A questo punto lei mi sbatte contro la situazione
obiettiva e mi sprona a reagire con coraggio, ma senza rabbia. In questa fase
di solito mi arrendo e comincio a disperare della mia impulsività. Se mi
sentisse Antonio, allora sarebbero guai, invece mi sente Raffaella che mi
consola con un altro caffè e stavolta ci mette vicino pure i grisbì. Le do un
bacio tra la guancia e l’orecchio, ma per sbaglio, e scappo verso la fermata.
Di solito mi fermo in pasticceria e ordino quattro bignè alla crema. Poi mi
fermo. E, a volte, quando l’ultimo grumo dolciastro è sceso giù, proprio in
quel momento comincio a ragionare.
Non so fare a meno però
di pensare ad Antonio seduto davanti alla finestra che affaccia sul mercato
coperto; anche se lui dalla finestra guardava soprattutto il via vai della
lavanderia all’angolo, dice che da lì vede uscire delle facce pulite: e
stirate, aggiungo io. Penso a come avrebbe affrontato lui ‘sta situazione. Sì,
in parte conosco quale potrebbe essere il suo suggerimento. Ma è quello che non
m’ interessa ascoltare: di analizzare il tutto e aspettare che la ragione
rimetta tutto a posto. Ma come, quelli dicono che sono troppo giovane per
gestire il catering della cooperativa. Ma come? Sono riuscito a orchestrare anche
quel banchetto per ottanta invitati. Senza considerare che a integrare col
gruppo di mattarelli dell’asl c’eravamo solo io, e Sasha, la ragazza slovena
che sgobba più di tutti. Le portate galleggiavano tra cappelli bianco panna e
permanenti rossastre. Noi a gestire cinque camerieri e tre cuochi. Noi ancora in
mezzo a fare il resto. Abbiamo sbalordito tutti. Pure quegli stoccafisso dei
psichiatri del Dsm. Pure loro e la loro pingue volontà a (non) vedere le cose
che migliorano. Una volta sono finito in una discussione assurda con Giannini,
quello che segue due utenti miei; insomma, questo Giannini mi scalpita davanti
agli occhi sulla sua incapacità a vedere “stimoli minimi del paziente”. Minimi?
ma se questo prima dormiva 22 ore al
giorno e nelle restanti due si masturbava e, tra una e l’altra, mangiava tre
tramezzini e beveva quattro birre e che ora, dopo un paio d’anni che lo seguo,
mangia pure la pizza e passeggia sulla Tuscolana tutti i santi pomeriggi. E sì,
fa Giannini, quello va sulla Tuscolana per guardare i culi delle ragazze. Embè,
che mo’ guardare i culi è poco stimolante? vabbè, ‘sto Giannini non è neppure
il peggiore, ché quando sta in forma, ovvero a settembre dopo le vacanze,
riesce a smuovere dal torpore l’intera utenza. Anche se a volte partire alle
sette del mattino per fare montagna terapia, non è il massimo per alcuni, ma almeno,
fa sperare che ci si sta incamminando verso qualcosa. Già. Anch’io dovrei
farlo. Saper scendere le altitudini senza inciampare e fare in modo, così
facendo, che le sfumature dei colori delle foglie, la varietà dei fiori presenti
lungo la discesa siano apprezzate, perlomeno osservate. Insomma, devo smettere
di cadere con i cerotti già in tasca. E cadi come cazzo si deve, mi ha detto un
pomeriggio Antonio, verso le tre, dentro la sala d’aspetto di una casa
editrice, dove Eleonora era andata a presentare dei racconti. Noi due fuori con
l’attesa di vedere un sorriso festante sulla sua faccia, invece, già alle tre e
dieci, stavamo con una birra peroni al centro tavolo, e tre facce mute a
fissare il vetro della bottiglia.
Antonio aveva un cugino che aveva militato in Prima linea. Un tipo di
Napoli che quando erano ragazzini non parlava mai, poi, una mattina
dell’ottantuno, piena di freddo nell’aria e con molte auto in giro, e che
entrambe le cose andavano a creare una paralisi nella sua testa di adolescente
ignaro dello smog e del suo peggioramento quando c’era l’alta pressione,
scoprii che l’avevano arrestato. “Arrestato? Addirittura, e quello non parlava
mai”. Antonio non sapeva nulla delle città e delle persone che fanno a gara per
peggiorarle. Nulla, godeva di oasi urbane fatte di piaceri nuovi e di attese
divine che il futuro sarà splendente.
Insomma, Antonio mi parlava di questo cugino terrorista, e dell’effetto che
fece su di lui a quel tempo. Anzi, ora che ci penso, aveva suggerito a Eleonora
di scriverne un racconto. Che poi l’aveva abbozzato, e mai finito. E mi sa che
da qualche parte l’ho conservato. Incompiuto ma conservato nello sgabuzzino.
Quelli erano i tempi dei racconti stampati sul posto di lavoro a scrocco e che
giravano tra di noi, di ufficio in ufficio, che nemmeno Cechov nella melma
burocratica russa. Nemmeno; e tra di noi c’era un fascino ingenuo per le
rivolte degli anni settanta che toccavano delle vette completamente idiote.
Come lo era pure ‘sto cugino, un po’ idiota. Anche se per scoprirlo e
dichiararlo abbiamo attraversato tutta un’epoca
idiota. Nel senso d’ignari, non di scemi completi, nel capire davvero come
stavano i fatti. All’epoca. E oggi? Mica stiamo tanto avanti che non ci serve
più voltarci indietro. Magari. Stiamo impantanati dentro le nostre semplici e
confuse storie. Ma ci siamo salvati già una volta dall’idiozia, non ci cadiamo
più. Ci sono gli anticorpi. E andiamo.
Antonio per uscire da quell’epoca
idiota era rimasto un mese chiuso nella sua cameretta. Dove c’erano tanti
poster. Scaffali incastonati dentro a mobili moderni, riempiti per bene da un’enciclopedia
universale. Una finestra che fissava per almeno sei ore al giorno. Un balcone
tenuto chiuso da una persiana beige. Panni buttati sopra delle sedie messe di
traverso nella stanza. Un lampadario anonimo che illuminava poco. Qualche foto
in bianco e nero. Un telefono. Fuori la famiglia si preoccupava. Il mondo era
così lontano. Non si sentiva nemmeno. Questo mi ha raccontato Antonio, e l’ha
fatto commuovendosi del ricordo di tanta forza impiegata in quell’impresa
titanica per un ragazzino qual era lui in quel mese difficile. Si trattava di
quella forza che gli era servita per scrollarsi di dosso ogni residuo,
pazzoide, di considerare l’affermazione sociale come una lotta fratricida
condita da parole d’ordine fuori controllo. C’era quasi riuscito, se non fosse,
come dice lui, che s’infilò nel suo letto sudicio un’amica coi capelli rossi e
un seno enorme, che si mise di traverso interrompendo la riflessione per
qualche giorno. La storia con questa ragazza l’ha distratto da una profonda e
solitaria riflessione. Che riprese qualche giorno dopo che la rossa lo mollò
senza tanti drammi una domenica mattina afosa: voleva costringerlo ad andare al
mare. Lui non ne voleva sapere. Lei insisteva, dicendogli indispettita, che in
quella stanza c’era puzza di chiuso. Era finita la passione della rossa.
Subentrava una voglia di normalizzare questo ragazzo tanto bello quanto
strambo. Da curare, così disse alla sorella di Antonio. E lei: certo, e tu
cos’hai fatto invece? Quello vuole cure e carezze. E l’altra: se, vabbè, vacci tu,
allora va. E già stava con le braccia strette a un moro muscoloso, sul sedile
di pelle di una Honda nera. Così al mare ci arrivava prima. Questa meteora
sentimentale, a detta di Antonio, fu facilitata dalla sorella. (Ah si?) Nel
senso che aveva sfruttato una sua debolezza. Della rossa nei confronti di
Antonio, che l’aveva confidato alla sorella tempo prima. Così convincerla di
fare la crocerossina fu semplice e veloce. Ma durò poco. Antonio si mise di
nuovo sdraiato a riflettere sul perché di tanta idiozia. Ne voleva uscire. Nel
frattempo comunicava solo con un altro suo cugino, che, a differenza di quello
di Prima linea, studiava Lettere e se ne stava per i fatti suoi dalla mattina
alla sera. Così, chiacchierare un po’ con’ sto cugino inquieto e recluso, non
gli pesava per niente, anzi lo rilassava. Così pensava Antonio, e ancora lo
pensava. Visto che lo nominava spesso come colui che lo ha ascoltato. Senza interromperlo mai. Un miracolo, visto che
all’epoca tutti gli chiedevano soltanto“ ma come stai?”. E quando lui
cominciava a parlare, anche se le parole non gli uscivano subito dalla bocca, e
quindi gli interlocutori pensavano bene di continuare loro le frasi; ma lui
avrebbe volentieri finito tutte le frasi contro l’idiozia, se solo avessero
aspettato l'incedere nevrotico di sillogismi timidi. Questo cugino invece
ascoltava soltanto. A volte, ma solo quando era necessario, gli spiegava il perché
secondo lui valeva la pena studiare. Continuava a dirglielo, senza pedanteria,
ma con la volontà a fargli capire che in quell’epoca idiota l’unica cosa che
serviva era trattenersi. Ché come ti muovevi facevi una cazzata. Un’idiozia
continua. Così, studiando, si stava fermi col corpo, ma si correva come pazzi
con i ragionamenti. Questo glielo suggeriva un suo professore all’università.
Il cugino studioso adorava questo professore. Lo considerava importante almeno
quanto il padre: che seppure a malapena sapeva parlare un dialetto stretto, gli
aveva trasmesso una notevole capacità a resistere. Col suo corpo seccato dal
sole, gliel’aveva trasmesso. Senza parlargli mai. Adesso a parlare ci pensava
il professore, che gli spiegava tutta la dignità del padre sotto forma
letteraria, linguistica e, in certi giorni di pioggia, anche poetica. Antonio
si metteva nella posizione del cugino quando il padre gli trasmetteva col corpo
la dignità. Ci provava davvero, e quando lo racconta fa sempre una smorfia
malinconica. Non significa: che scemenza che ho fatto. No, perché questo
ricordo gli produce ancora un pensiero tenero e forte allo stesso tempo. Quei
pomeriggi surreali passati col cugino, che nel frattempo è diventato insegnante
di lettere in una scuola media di Brescia, ora gli appaiono come una
disintossicazione di un tossico presso una comunità di recupero. Quel suo
periodo di reclusione rimane il suo momento
storico in cui ha pareggiato il conto nei confronti della sua epoca.
Dell’inutilità di quel periodo. Da quel giorno la sua storia non si è voltata
più in dietro: un treno impazzito con un capotreno serio alla guida. Fino a
Roma. Dove Antonio si è bilanciato con i suoi pensieri acuti dentro a una
realtà sbilenca. In fondo l’idiozia si era liquefatta sviluppandosi in rivoli
superficiali che non aggredivano neppure i marciapiedi invasi dalle auto. Ora
bisogna coprirsi bene ché quest’aria leggera va a pizzicare la faringe
indebolita. Questo mi ha scritto una volta.
Anche se bisogna
ricordare pure che Antonio non aveva voglia di affermarsi. Quindi, in fondo, a
me ‘sta cosa faceva incazzare. Eh! Come quella mattina che si è fatto
accompagnare all’università da quel professore per presentargli un progetto. Gli
lascia il plico sulla scrivania e scappa. Ma come, dico io, tutto l’inverno a
progettare davanti alla finestra che da sul mercato – che poi è pure squallida
e chiassosa ‘sta immagine – e lo vedi, lo saluti appena, e lasci il plico alla
segretaria? Dice lui: quello stava a chiacchierare con quelle studentesse, che non
l’hai visto? Neanche mi ha guardato negli occhi. Guardato negli occhi? Ma tu
sii scem’! quello con tutti i cazzi che c’ha nella capoccia vuoi che ti
riconosca come un genio a primo acchito? Almeno presentagli la cosa con grinta.
Mica quello sta là per fare il buon sammaritano o il pigmalione dei miei
stivali. E no. Quello sta là per raccogliere cose buone, ma gliele devi
presentare bene. Coglione, pensavo senza dirglielo. Invece, Antonio si
ritirava, faceva la vittima romantica. Tradiva i suoi stessi progetti. La
scienza. Me. Eleonora. Il padre e tutto il periodo sfigato della cassa
integrazione, che portò la famiglia a una sbandata pericolosa. Gliel’ho detto.
Ma lui, testardo d’orgoglio paesano, non rispondeva. So che ne soffriva, ma
guai a dirlo. Non sia mai.
Detto questo mi sento
ridicolo oggi nel farlo. E quello non c’è più. A chi lo dico davvero oggi? a Raffaella così mi offre
un’intera confezione di grisbì. A Eleonora? quella oramai scrive soltanto.
Prima un po’ almeno viveva, si vede che le è bastato vivere quegli anni per
poter scrivere per tutto il resta della vita. Senza sosta. Che brava che è
però. Leggo sempre con piacere le cose che pubblica. Poi le scrivo una mail, e
quella mi risponde subito ringraziandomi. Si vede che è cresciuta in un ambiente
sano e solidale. Si vede che ha vissuto con quel capoccione buono di Antonio.
Si vede.
Anch’io vedo tutto. E
sento pure. Come quella bambina che piange tutti i giorni a scuola. Nessuno che
sa consolarla. Non c’è mano o stanza che sappia accoglierla per bene. Resta
sola dentro ai suoi urli di scimmia. Nessuno che sa prenderla, neppure in
braccio per consolarla. No, questa bambina gira per gli spazi stretti senza
aspettativa d’affetto. Sembra. Cammina, ora velocemente poi, appena l’urlo la
costringe a un di più di energia, frena
e barcolla fino al primo muro o mobile che trova. Intorno tante faccine con
bocche spalancate che non riescono a imitarla. Come vorrebbero, ma non è facile
come quando si schiamazza per imitazione per far arrabbiare la maestra. Qui si
tratta di una disperazione lontanissima da tutti. Me ne sto fermo nella sedia
di vimini con i pensieri che ruotano fino al pendente colorato sulla mia testa
pesante. Una porta sbatte all’improvviso, mi volto di scatto: urlo “non si
sbattono le porte qui!”, la signora delle pulizie si ritira nelle esili spalle
di fame urbana e mi dice: ma ho accompagnato la porta, scusa. Allora credo di
aver esagerato; quest’urlo somiglia a quello della bambina disperata. Mi alzo
di scatto e vado a cercarla tra gli altri bambini. Eccola che siede a gambe
aperte davanti a un mucchio di costruzioni di legno: tenta di metter su una
casa. Respiro affannato e, nel muovermi tra i bambini, inciampo su Davide, che
sbatte plastico sul mobile dei colori. Nemmeno piange subito, prima resta in
un’apnea di alleggerimento, poi, appena il fiato e i nervi glielo concedono,
urla a più non posso. Torna la signora delle pulizie, stavolta con le spalle in
avanti, e lo raccoglie in braccio, poiché si accorge della mia paralisi. Non
m’importa del tuffo involontario di Davide, invece sono obbligato a osservare
la bambina che ora non piange più. Non capisco. Non accetto il suo cambio
repentino. Mi sblocco dall’incantesimo e
vado verso l’addetta delle pulizie, una volta che ce l’ho davanti la strattono
e mi faccio riconsegnare il corpo flaccido e bagnato del bambino piangente. Lei
scappa, lui mi fissa e non piange più. Lo sgrido. Lo rimetto giù, chiamo la
collega ed esco. Comincio a correre con le ciabatte ai piedi fino al piazzale.
Cerco la macchina, ma non la riconosco più. Sento un dolore nella testa. Vedo
facce materne che piangono alla fermata del pulmino. Ci sei anche tu. Non
sostengo il tuo sguardo perso. Mi stai aspettando, sono quasi le tredici e io
sto sul pulmino scassato che barcolla zuppo di bambini e sudore. Decido di
attraversare accanto a te che hai gli occhi solo per lui, e mentre sto per
arrivarti vicino inciampo e cado ai tuoi piedi. Che si fanno stringere da scarpe
nere con una specie di laccio di cuoio lì a chiuderle per sempre. Nessuna
concessione ai sensi, solo una divisa sgualcita da madre. Il mare accarezza le
rocce di cozze, oggi. La collina che chiude lo sguardo è nitida fino a mostrare
oscenamente le case popolari incastonate tra gli alberi selvaggi e le mura
antiche, ancora in piedi. Cerco di toccare la tua scarpa, ché da sempre ho
desiderato farlo, ma non ci riesco. Credo che qualcuno mi stia tirando dalle
gambe. Chi sarà? Forse un tuo vecchio amante, forse il tuo figlio maggiore.
Certo non è tuo marito. I miei gomiti lasciano una corsia rossa lungo la pineta
asfaltata di nero. Non riesco a urlare. Trattengo la storia di quei cinque
minuti fatali. Tra qualche anno piangerò anche per meno. Tra qualche anno
quelle scarpe le indosserò per sfregio in un carnevale dove il sesso appare la
cosa più innocente che ci sia: un’orgia di corpi amici che provano a scuotere
anche l’anima fin dentro l’intestino. Siamo fatti così, cara signora delle
pulizie, noi ci amiamo, anche se sporchi di vita e di vizio. Siamo quelli che
non soffrono più.
Un silenzio copre in
diagonale l’enorme cimitero quadrato. Croci e facce con lucine da cinque watt
tengono accesa l’idiota speranza di star vicino ai propri defunti.
Poi al ritorno, col fiato
allungato da pensieri atroci, scorro negli occhi le facce rugose dei vecchi del
paese. Nessuno che vuol parlarmi. Qualcuno sputa come tic schifoso, e agli
altri non importa. Si fa così da noi; eppure cose peggiori, che tutti sanno,
alcuni fanno e molti ne parlano. Insomma, questi vecchi che sono stati migliori di noi a detta di alcuni, non
fanno altro che schifare il mio passaggio doloroso. Mi hanno scalciato per bene
nell’ottantotto e pure nel novantacinque. Calci da spaccare in due il pancreas.
Sono proprio i migliori. Stronzi d’altri tempi, dove le donne venivano sbattute
in ogni angolo del paese. Neppure tanto oscuro, basta che la puzza d’alcol
avesse il sopravvento sulla ragione. Sul pudore. Sulla storia. Quella dei
migliori. Oggi mi vedete e non dite una parola. Però quella volta avete toccato
il culo di mia madre, e con l’altra mano vi siete strofinati. Io ero là,
piccolo, che neppure sapevo urlare. Ma vedevo tutto, e sentivo il resto. Oggi so
anche piangere sul ventre di un’amica.
Antonio questo non lo
deve sapere. Antonio non lo saprà mai. Le sue storie sanno di me, ma le mie non
devono contenerlo. Questa storia viene dalla notte appena subita, e non c’è
spazio di ragione: lui direbbe che le visioni non contano. Solo i fatti, gli
oggetti e le parole pronunciate. Vabbè, Antonio caro, ma dentro ho un mondo che
sta per sbocciare e inquinerà tutta la mia realtà.
Ci siamo quasi: tra
qualche giorno ti verrò a sentire alla conferenza. Io tra gli altri, tu con
pochi eletti a relazionare scientificamente sulle sociopatie nella società
britannica a cavallo tra gli anni settanta e gli ottanta. Le scorie avvelenate
del punk spiegato ai nipoti. Eleonora lontana da noi.
Stamattina sento pure di
raccontare una cosa importante. Quel giorno che Antonio ha fatto cadere la
madre. Stavano discutendo tra loro di questioni antiche come il loro lampadario
a gocce di cristallo; all’improvviso la signora Delia accusa Antonio di averla
trascurata molto nell’ultimo periodo. Antonio s’incazza come non mai, era
furioso così prima una spinta, poi una
manata sul volto rugoso. La signora sbatte lentamente, ma molto lentamente,
contro la finestra che da sul viale. Quando poi la sorella ha finito di
raccogliere gli ultimi frammenti di vetro, e poco dopo che ha rovesciato il
contenuto nel secchio, solo allora Teresa, la sorella maggiore di Antonio, sa
che il trauma cranico è lieve. Per Antonio invece è grave, quello che ha fatto
e quello che ha sentito nella sua testa: ma che hai fatto, sii scem! Così, dopo
una settimana di convalescenza della signora, e dopo averle chiesto scusa con
almeno tre o quattro variabili narrative, Antonio riempie le valigie e parte.
Si ritrova solo col freddo in faccia alla stazione di Barcellona. Era il cinque
Dicembre, era l’inizio del suo esilio. La fuga è stata condivisa, poiché tutti
sapevano che scappava. Ma nessuno riusciva a dirgli niente di sensato. Perché
nessuno lo tratteneva? Per quanto mi riguarda, ero preso dai problemi con la
mia fidanzata; Eleonora scriveva le ultime pagine del suo romanzo d’esordio.
Gli altri erano tutti nascosti dalle loro vicissitudini che in città sembrano
sempre più complicate e alte. Sembra che si debba competere pure a chi ha più
guai in saccoccia. Ogni volta che ci s’incontra nei bar o nelle piazze di Roma,
stiamo sempre ad aspettare che l’altro finisca di parlare che subito siamo
pronti con la nostra scorta di guai. È così, giuro.
Intanto Antonio nessuno
l’ha fermato. Intanto lui non l’ha nemmeno chiesto. Forse solo oggi posso
capire che all’epoca nessuno ci credeva che questa fuga fosse lunga così.
Oramai non è neppure più nostalgia, che spesso fa più male che bene, me lo
diceva sempre anche lui che la nostalgia era una palla al piede, no, oramai
questo ricordo è diventato dolore secco. Non si smuove più. Sta là.
Ecco vedi mi ritrovo in
piedi alla fine di questa giornata lunga e piena di ricordi che inciampano.
Eccomi, dentro a quest’enorme campo di calcio polveroso. Sì, quando giocavo
nella squadra dell’oratorio, dall’inizio alla fine della partita vivevo un
tempo sospeso, bellissimo. Nessuna paura mi tratteneva. In quell’oretta di
gioco al pallone davo il meglio di me, e non mi preoccupavo di sbagliare. Gli
sbagli restavano a bordo campo e avevano a volte gli occhi crudeli degli altri,
inclusi i genitori, sempre più numerosi dei nostri, dei ragazzi della squadra
avversaria. Dentro quel rettangolone di pozzolana e sparuta erba solo agli
angoli, dentro a quel preciso spazio a me veniva voglia di dare il meglio. Che
c’era, lo intuivo e ne facevo buon uso, come forse non avrei fatto più in vita
mia. Tutti vedevano che ero bravo: fantasia e sacrificio. Così come Antonio
dietro le sue ricerche. Magari dieci minuti prima stava cazzeggiando con te e
poi, dopo un caffè e biscottino, eccolo a elaborare scavando dentro le viscere
della storia come una talpa, riemergendo con due occhi spiritati in compagnia
di tesi sociologiche geniali. Lo vedevo da come stava su quel computer che era quello
il momento magico da cui attingere il meglio. Si restava al di fuori noi, come
mio padre dietro la rete da pollaio del campo sportivo durante le partite, e si
poteva solo ammirare in silenzio. Eleonora invece aveva bisogno di totale
solitudine. Diceva che non poteva stare in una stanza con altri per scrivere.
“Lasciatemi sola coi miei fantasmini cattivelli”, così annunciava quando stava
per cominciare a scrivere. E via, ognuno si ritirava dentro al proprio rifugio,
ché la nostra scrittrice partoriva raccontini.
Antonio a Barcellona ha
dato davvero il meglio. In questi tre anni di ricerche ha dato più che nei
dieci di permanenza a Roma. Chissà, forse la vicinanza di Eleonora, con la sua
carriera che incombeva sulle nostre vite giorno per giorno, forse quest’attenzione
su di lei, questi riflettori sempre accesi sulle sue cose, gli hanno sottratto
la linfa necessaria a dare il meglio. Il meglio, quello per me dove si è
nascosto oggi? Inutile negarlo, e non serve neppure poi tanto fare la vittima:
tra i tre sono quello messo peggio, col meglio,
sia chiaro. Poiché per il resto mi sento più attrezzato di loro ad affrontare
la vita quotidiana. Ma a cosa serve?
Antonio, tra qualche
giorno verrò ad ascoltarti come si ascolta un grande uomo. Tu lo sei, hai
raggiunto una prima vetta, d’ora in poi sarà un saliscendi verso quelle più
alte; ma non hai più Eleonora tra le braccia nei fine settimana, poiché sei
stato lapidario quella sera al porticciolo. Chissà se ti pesa averla persa
davvero e per sempre. Caspita quella sera avevi proprio una faccia scura e due
labbra che si aprivano lo stretto necessario per comunicare il tuo distacco da
lei, da noi. Stavi con Gisella, una professoressa di filosofia, spagnola, con
una sensualità che ci faceva nascondere come bambini dopo la marmellata rubata,
come quella volta a Trastevere, quando in trattoria sì prendeva tutte le
attenzioni di noi maschi. Eri tornato a Roma per un paio di giorni e volevi
vederci, esclusa Eleonora, che nel frattempo aveva scritto un racconto tosto e
deciso sulla separazione, vostra, e sulla donna in genere col maschio indeciso,
e solito fuggiasco. Vabbè, tu non ti sei perso d’animo, e con quei capelli neri
di Gisella ti coprivi nelle fredde sere d’inverno. Ma perché a Barcellona fa
freddo? Ti dicevo un po’ idiota al telefono, quando non sapevo più cosa dirti, poiché
consideravo l’uscita di scena di Eleonora come una bastonata anche per me, e nei
primi tempi provavo anche un imbarazzo nuovo verso di te. Da sempre sono stato
in mezzo a voi per alimentare quell’equilibrio altalenante che ci faceva
apparire inseparabili e complementari agli occhi di tutti, e anche dei nostri,
che avevano necessità di ancoraggi sicuri dopo anni di sbandate esistenziali. Di
dare il meglio, appunto. Sai, sono sempre stato un po’ diesel e quindi io
ancora oggi, anche dentro questo campo di calcio sconfinato, sento che nel
tempo ho lasciato cadere quasi tutte le migliori occasioni. Perlomeno quelle
cruciali. Certo, paga fare la vittima,
soprattutto con le donne, e, infatti, non mi posso lamentare di non avere
amiche, anche se poi non ci sono mai durante le mie serate bloccate da pensieri
tristi e opachi almeno quanto la Prince del padre di Mimmo. Te la ricordi? Era
beige sfumato alla crema avariata, e puzzava sempre di pesce. Stavamo sempre a
inventarci gag e personaggi noi, come quando durante quel corso di agricoltura
biologica abbiamo messo su un duo altro che Gino e Michele: tu al disegno e io
alle battute. Nessuno si salvava, erano tutti stecchiti dalla nostra fantasia bestiale.
Anche se spesso le persone che ci piacevano, appena c’era un segnale di
affinità, stavano già apparecchiate col sorriso leggero alla nostra tavola. Noi
a farli godere della nostra infinità disponibilità. Noi che se solo avessimo
avuto la possibilità avremmo aperto le porte tutte le sere, e spaghetti per
tutti, anche posti letto, vino, colazioni abbondanti e risate assicurate. Noi
saremmo stati ottimi locandieri in una Roma enorme e gassosa di arrampicatori,
puttane e studenti finti poveri, di ragazze sempre a tirar tardi con tutti, di
punkabestia tremendi, di sornioni impiegati che si drogavano di tutto; Eleonora
ancora lì, a sognare dentro i suoi vestiti dei mercatini degli anni settanta.
Diceva che glieli aveva conservati la zia fricchettona ora solo chiattona, e
con tanti pensieri brutti nella testa. Queste persone che abbiamo amato come si
amano le persone sulle spiagge notturne d’estate, quando è tutto un ridere
contagioso e gioioso. Quando poi all’improvviso due si appartano a tre metri
dagli altri e scopano rotolandosi fino alla riva. Gli altri sorridono vogliosi e
ci provano anche loro. Alla fine, dall’alto, un occhio malizioso avrebbe visto
un’enorme orgia di sabbia, invece, sono solo attimi di autentica spensieratezza
tra uomini e donne che stanno provando a dare il meglio, almeno in quella
serata. La risacca copriva gli inutili gemiti, perché si doveva stare dentro a
un coro muto di passione giovanile. Noi. Allora.
Andrò alla conferenza di
Antonio, anche se, dentro questo principio d’insonnia, c’è un pensiero che mi
fa sbarrare gli occhi di paura. Di me che si sveglia in una domenica mattina,
all’alba, che vado alla stazione e prendo il primo treno che parte per il nord.
Cerco un posto vicino al finestrino, chiudo gli occhi, e aspetto che il viaggio
mi entri dentro la testa. Indovinare ancora le stazioni della tratta
Roma-Firenze. Allungo le gambe fin sotto al sedile di fronte, incurante della
signora stretta nel suo talleur. Poi scendere appena il freddo si fa duro e
spietato. Godere dell’andirivieni delle persone nell’atrio della stazione e incamminarmi
verso il primo bar, prendere il caffè, e cominciare a vagare senza meta. Senza
cercare nulla. Fare entrare tutto il freddo nella mente e camminare sempre più
lentamente. Aspettare che le polveri sottili vadano a fare da velo tra il
ghiaccio e la pelle. A questo punto separare tutte le cose fatte male – incomplete
- che negli anni mi hanno costretto a rinunciare ai sogni, alla loro
realizzazione. A diventare quello che sarei dovuto diventare. Non buttarle via,
no, questi blocchetti di vita vissuta un po’ così, senza la giusta convinzione,
ora voglio tenerli come si conservano i sacchetti di cibo dei nostri freezer in
attesa di essere utilizzati. Nei giorni a venire poi aprire una confezione per
volta, uno spaccato alla volta e cercare di osservarlo bene bene. Stavolta
senza piangerci su. No, anzi, sorridere magari quando ti rivedi dentro a quella
scuola di scrittura, proprio mentre stai per rinunciare per l’ennesima volta a
fare la domanda. Anche quella sera.
Vederti con quella smorfia per metà presuntuosa e l’altra metà di faccia
paralizzata da una patetica timidezza paesana. Certo, non c’è più niente da fare,
infatti, farò sciogliere solo quei momenti dove le cose sono andate come
dovevano andare. Sì, io lo so come dovevano andare. Lo sapevo sin da ragazzino.
Lo sognavo tutte le sere, prima di dormire, quando neppure le poche auto sulla
strada dietro la mia testa sentivo più. In quei momenti immaginavo cerchie di
amici, come poi ho davvero incontrato nel tempo. Solo che, a mia insaputa, non
si sono realizzati i sogni nella sostanza: solo una superficiale riuscita di
parvenze esistenziali buone per i racconti sotto le feste. Solo solitudini.
Così in quegli anni mi ritrovavo a inviare infiniti sms con scuse assurde per
elemosinare attenzioni, che nemmeno nella pubertà; questo pur di riempire certi
pomeriggi estivi. Vabbè, io ‘sta pubertà mi sa che non l’ho proprio vissuta. Ma
quando doveva esserci? Insomma, proprio ora scopro che ho fatto indigestione d’illusioni
di seconda mano, tutti quegli anni d’illusioni che non erano figlie di quei
sogni. Ne erano solo lontani cugini. Niente più. Se solo la mano di Claudio
avesse spinto l’otturatore di quel magnifico banco ottico, un minuto prima;
senza fare battute su di me, anche se innocenti battute, su di me ebbero un
effetto pari a una bomba, infatti, deflagrai in silenzio e me ne andai. Con gli
occhi rossi e le mani che cercavano di scacciare l’aria intorno, mi stavo
allontanando con passo deciso e ottuso dalla scena di uno dei più grandi sogni
che avevo agognato e vissuto. Solo in parte, è vero. Solo per due anni scarsi.
Poi la fuga per le ampie autostrade dell’Italia degli anni novanta gremita di
facce speranzose di poco. Io con loro, bandiere ovunque dentro cortei scaccia
ansie, e tasche sempre senza soldi. Avrei dovuto staccare davvero: studiare
notte e giorno, come ha fatto Antonio. La conferenza è l’inizio del suo sogno.
Prima ci sono state soltanto fatica e passione. Cazzo, ora ho capito, a me è
mancato il cugino al momento giusto. Pensa se Antonio si fosse avvicinato
all’idiota di Prima linea. Magari ora stava in Sudamerica a gestire un chiosco
con lui. Bah! Chissà, qui è tutto da riscrivere. Questa storia alleggerisce
solo l’aria intorno ad Antonio. Se lo merita, figurati, solo che a me questo
viaggio verso nord forse servirebbe davvero.
Ecco che vedo Antonio
sfrecciare sul treno rosso, intuisco la sua faccia china sul portatile. Uno
sguardo di chi sa che ora quel riflettore è tutto per sé. Magari sta pensando
anche che quando incrocerà il mio sguardo tra la platea, in quel preciso
istante, anche lui congelerà ogni paura antica. Per sempre. Per fortuna che c’è
stata anche la mia spinta continua ad aiutarlo ad insistere nei momenti di
buio, che pure ha avuto, come quando si era bloccato per sei mesi, dopo la
morte del padre, e non riusciva più a finire gli esami. Una sera, dopo aver
bevuto una decina di birre insieme al baretto dei cingalesi sotto casa; dopo
una lunga e spietata discussione sulla sua paura atavica bloccata
dall’orgoglio, sempre dai cingalesi, che cominciavano a incuriosirsi. Infine,
dopo una nottata insonne a pensare sul balcone che dava sul bar dei cingalesi,
che stavano ancora aperti, eccolo che appare in cucina con un caffè in una mano
e un cornetto alla crema dall’altra, a ringraziarmi con gli occhi bassi, senza
parlare. Sono contento per la sua carriera folgorante: quello già ha pubblicato
su le riviste più importanti, hai capito?
No, qui c’è poco da
scappare: le mie braccia sono pronte a stringere il ricordo. Strozzare solo la
rabbia, ma farlo per conto mio, magari in lunghe corse al parco, e poi
aspettare le parole luminose che Antonio saprà diffondere sulla scena.
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