Un risveglio cupo dopo una notte
sempre a sognare gambe, occhi e bocche spalancate. Un corpo che si attorciglia
all’incubo che prende forma delle mie gambe: che non vogliono spingere nulla. Solo
bloccarsi per sempre davanti alla bellezza.
E sotto casa le voci concitate delle
donne. Sotto casa il mio corpo finito dagli uomini insaziabili di battaglie e di
crimini urbani. Vi vedo, e attraverso i vostri bicipiti tatuati si nota la
totale assenza di sogni. I bambini assistono muti, già pronti al passaggio tra
l’inizio e la fine. Tra il gioco e la morte.
Mia Cara, di solito queste cose le
scrivo la notte per esorcizzare i luridi fantasmi che mi aspettano all’uscio. Stamattina,
ingolfato da incubi, faccio uscire i migliori dalle miei narici invecchiate in
una notte.
Eppure il sapore di quella bocca
poteva bastare a farmi uomo degno del proprio vissuto. Eppure quelle cosce che
ondulavano davanti alla mia faccia erano bandiera di pace sui miei sensi. L’umido
passaggio verso l’estasi pareva vero e profondo. Poi un urlo; tutti a cercare
di capire dov’era il fatto. Le mie mani gelatinose si nascondevano dietro le
natiche, tese ancora.
Sullo sfondo un paesaggio di facce
mute.
Nella terra prati infiniti di fiori e
ciuffi.
Un battere e levare sulla pelle
liscia.
Un piangere e ridere davanti ai tuoi
occhi.
Poi, una scia di realtà mette tutto a
posto.
Il caffè, per favore, portami un
caffè fin sopra questo letto duro.
Poi passa il pomeriggio veloce tra
sonno e silenzi.
Vedo una folla di bambini che corre dietro alla palla che era
mia, anni fa era mia, ora prosegue la traiettoria dai piedi di mio figlio. “Giochiamo
a mundialito…”. Sì, giocate e spazzate via ogni noia.
Quanto a me, quanto a te, ci divide
un sentire altalenante: ora io sono a un soffio dal cielo, mentre tu stai raschiando
la terra col culo. Il divano, il tavolo, il letto e tutti i posti da
condividere, oggi, ieri, non ci sono serviti. Se solo i nostri pensieri
potessero mostrarsi nell’aria della stanza, allora sarebbe una guerra
improvvisa; uno sbarco di nemici nudi con il coltello tra i denti. Staremmo lì
a sbranarci come due clan contrapposti. Due mondi che non si sopportano. Un uomo
e una donna.
Questo lago di parole tonde, proprio
non serve a niente e a nessuno. Ma escono, scappano a una logica di
sopravvivenza, a un ultimo tentativo di trattenersi. Di non sputtanarsi. Non ci
riesco, oramai non riesco a trattenere il folletto malefico che spinge dal
petto, e non vuole dormire. Stavolta lo lascio libero e non solo nelle giornate
nere e inguaribili di rabbia, no, lo lascio al suo destino di spinta verso il
vero, quando vuole. Cosa dovrei fare? Diventare cinico di parole che sputa
sentenze e maledizioni, anche la mattina al bar? Anche la notte nei sogni?
E mi viene in mente, più volte in
questi giorni, un capitolo del libro della Ortese “Il mare non bagna Napoli”,
letto qualche anno fa. C’era un reportage narrativo attraverso chiacchierate e
riflessioni con e su gli intellettuali napoletani di quel periodo. Fine anni
cinquanta? Se non ricordo male sì, erano quegli anni, in cui il punto di vista
narrante (la Ortese aveva fatto parte di quel gruppo) con una scrittura
spietata fotografava dei ritratti di uomini ( Rea, Compagnone, etc.) senza
pietà. Come solo le donne a volte sanno fare. Durante la lettura provavo
dolore, nell’immedesimarmi per un po’ nella testa di quegli intellettuali un po’
allo sbando, dentro una cornice di una città, Napoli, che proprio se li
risucchiava dentro le proprie viscere, e nella sua indolenza cronica. Ecco, sia
quel modo di scrivere deciso e coraggioso che quel vissuto indebolito da un contesto
decadente, contribuiscono oggi a farmi vedere il mondo, il mio piccolo mondo
moderno, con degli occhi lucidi di paura. Serve, certo che serve. Un altro
caffè, ancora un altro caffè.
2 commenti:
un caffè al tavolo 3!
va bene, solo che non ricordo dove si trova il tavolo tre. mi lasci una traccia, per favore?
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