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sabato 8 ottobre 2011

Questo letto duro


Un risveglio cupo dopo una notte sempre a sognare gambe, occhi e bocche spalancate. Un corpo che si attorciglia all’incubo che prende forma delle mie gambe: che non vogliono spingere nulla. Solo bloccarsi per sempre davanti alla bellezza.
E sotto casa le voci concitate delle donne. Sotto casa il mio corpo finito dagli uomini insaziabili di battaglie e di crimini urbani. Vi vedo, e attraverso i vostri bicipiti tatuati si nota la totale assenza di sogni. I bambini assistono muti, già pronti al passaggio tra l’inizio e la fine. Tra il gioco e la morte.
Mia Cara, di solito queste cose le scrivo la notte per esorcizzare i luridi fantasmi che mi aspettano all’uscio. Stamattina, ingolfato da incubi, faccio uscire i migliori dalle miei narici invecchiate in una notte.
Eppure il sapore di quella bocca poteva bastare a farmi uomo degno del proprio vissuto. Eppure quelle cosce che ondulavano davanti alla mia faccia erano bandiera di pace sui miei sensi. L’umido passaggio verso l’estasi pareva vero e profondo. Poi un urlo; tutti a cercare di capire dov’era il fatto. Le mie mani gelatinose si nascondevano dietro le natiche, tese ancora.
Sullo sfondo un paesaggio di facce mute.
Nella terra prati infiniti di fiori e ciuffi.
Un battere e levare sulla pelle liscia.
Un piangere e ridere davanti ai tuoi occhi.
Poi, una scia di realtà mette tutto a posto.
Il caffè, per favore, portami un caffè fin sopra questo letto duro.



Poi passa il pomeriggio veloce tra sonno e silenzi. 
Vedo una folla di bambini che corre dietro alla palla che era mia, anni fa era mia, ora prosegue la traiettoria dai piedi di mio figlio. “Giochiamo a mundialito…”. Sì, giocate e spazzate via ogni noia.
Quanto a me, quanto a te, ci divide un sentire altalenante: ora io sono a un soffio dal cielo, mentre tu stai raschiando la terra col culo. Il divano, il tavolo, il letto e tutti i posti da condividere, oggi, ieri, non ci sono serviti. Se solo i nostri pensieri potessero mostrarsi nell’aria della stanza, allora sarebbe una guerra improvvisa; uno sbarco di nemici nudi con il coltello tra i denti. Staremmo lì a sbranarci come due clan contrapposti. Due mondi che non si sopportano. Un uomo e una donna.
Questo lago di parole tonde, proprio non serve a niente e a nessuno. Ma escono, scappano a una logica di sopravvivenza, a un ultimo tentativo di trattenersi. Di non sputtanarsi. Non ci riesco, oramai non riesco a trattenere il folletto malefico che spinge dal petto, e non vuole dormire. Stavolta lo lascio libero e non solo nelle giornate nere e inguaribili di rabbia, no, lo lascio al suo destino di spinta verso il vero, quando vuole. Cosa dovrei fare? Diventare cinico di parole che sputa sentenze e maledizioni, anche la mattina al bar? Anche la notte nei sogni?
E mi viene in mente, più volte in questi giorni, un capitolo del libro della Ortese “Il mare non bagna Napoli”, letto qualche anno fa. C’era un reportage narrativo attraverso chiacchierate e riflessioni con e su gli intellettuali napoletani di quel periodo. Fine anni cinquanta? Se non ricordo male sì, erano quegli anni, in cui il punto di vista narrante (la Ortese aveva fatto parte di quel gruppo) con una scrittura spietata fotografava dei ritratti di uomini ( Rea, Compagnone, etc.) senza pietà. Come solo le donne a volte sanno fare. Durante la lettura provavo dolore, nell’immedesimarmi per un po’ nella testa di quegli intellettuali un po’ allo sbando, dentro una cornice di una città, Napoli, che proprio se li risucchiava dentro le proprie viscere, e nella sua indolenza cronica. Ecco, sia quel modo di scrivere deciso e coraggioso che quel vissuto indebolito da un contesto decadente, contribuiscono oggi a farmi vedere il mondo, il mio piccolo mondo moderno, con degli occhi lucidi di paura. Serve, certo che serve. Un altro caffè, ancora un altro caffè.


2 commenti:

cooksappe ha detto...

un caffè al tavolo 3!

Anonimo ha detto...

va bene, solo che non ricordo dove si trova il tavolo tre. mi lasci una traccia, per favore?