Il grigio della stazione Termini mi
prende sempre la testa, e la sbatte giù, insieme a tutta la ciclotimia di
stagione che, come i saldi anticipati, quest’anno neanche aspetta i bilanci di fine
anno. Neanche. Poi scende un pensiero che riporta a galla parole acide che non
vorrebbero uscire mai di bocca; quindi, scrivo.
Quella stretta camicia nera faceva
splendere ancora di più quelle ombre sotto i tuoi occhi scuri. Questo pensavo
tempo fa: ma ora mi arriva solo il suono.
Compulso dentro questo blog alla
ricerca di cliccate statistiche che raddrizzino per qualche giorno la mia
autostima. Mi sento come un toast: schiacciato tra il passato e il futuro,
lascio vedere il formaggio fuso per darmi un tono, per attirare topi…rosicchiare
sarebbe un mestiere con un po’ di futuro, non come le concessioni pelose che fa
il comune alle scialbe cooperative sociali. Che poi “sociale” ricorda tristi
epoche, che mi portano fin dentro all’istituto per orfanelli che poggia come
santuario del bene su splendidi colli, oggi non più malarici. Sento le urla di
quelle bambine, e il loro incessante aspettare di rabbia famiglie o orchi, piuttosto
di stare là a dare potere a preti e suore che la storia farebbe bene a
scacciarli via: nel gorgo del male di dittature reali o di fatto. Le sento,
dicevo, e stavolta non mi tappo le orecchie: mi faccio forza e provo a
testimoniare almeno le scorie di quei misfatti sulla pelle di quei bambini. C’era
la guerra e il male dava forma a giustificazioni ancora oggi sopravvissute. Non
darò nessuna gloria al boia, mentre mostra i suoi muscoli “sociali”; ma solo di
facce, ombre e corpi stretti in camerate piene d’ingiustizie mi resta da
scrivere. Domani, che oggi barcollo in maniera penosa.
1 commento:
la metafora del toast è magnifica. magnifica!
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