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sabato 17 dicembre 2011

Don Giuseppe



Non ne voleva sapere di scendere: sotto c’erano quindici metri di vuoto, riempito solo da travi impolverate, una corda e il buio in fondo. Don Giuseppe gli urlava di farlo “ché non è la prima volta che scendi”. Sì, questo era vero, ma stavolta non gliela faceva davvero. Quella palanca era un ponte tibetano da attraversare; uno stuzzicadenti dove passare con tutto il corpo. Certo, aveva dieci anni, era appena un fuscello di nervi. Niente, si era accovacciato e aspettava che il coraggio tornasse. Eppure, poco prima, aveva come tutti i santi giorni, prima di fare i tocchi con le campane, giocato con i compagnetti. Si erano appesi sulle campane appena avevano visto comparire le vecchiette nere nere dalle scale di sotto. Quelle a urlare: disgraziat’, scignit’. E loro a ridere come diavoli. Poi altre cose inenarrabili, che di solito fanno a quell’età i bambini e che poi, all’improvviso dimenticano; forse si vanno a depositare nella legnaia dei ricordi. Gianni, Emiliano e Carlo erano fetenti nel far disperare le nonne che da sotto si mettevano le mani raggrinzite tra i capelli a cipolla. Intorno freddo, e il via vai delle madri tra botteghe e mariti. Il rientro di mare grosso si sentiva fino a lassù. Ridere come matti rompeva la paura di vivere nel silenzio dell’attesa tra il mare grosso e la sera.
Quel pomeriggio la resa: non voglio scendere. Il prete si agitava a dieci minuti dall’inizio della messa. I chierichetti erano già pronti, che intanto si lanciavano le vecchie divise addosso, dentro questo stanzone che racchiudeva odori e misteri: donnine che fuggono con gli occhi serrati dal piacere, al mattino, tra la scuola e il pranzo.
Ad un certo punto Don Giuseppe arriva a due metri dalla palanca, mica c’era mai andato fin su alle campane lui, e no, ci mandava ragazzini scapigliati con gli ormoni da nascondere in alto; insomma, lo prende dai piedi e lo obbliga a passare sopra la palanca tibetana. Lui prima urla, poi, ripensando allo schiaffone che gli aveva dato ‘sto prete qualche tempo prima, dopo una parolaccia, si fa buono buono, forte forte e scende. Intanto l’aveva anticipato, porgendogli l’altra guancia.

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