Fino a ieri parlavo molto e scrivevo
peggio. Oggi sono più sereno: aspetto. Anche se è attesa di cani randagi. Di
uomini tutti di un pezzo. Nessuna affascinante scrittrice alla porta. La
Parrella scrive da dio. Nessun amico magro a cercarmi. Lo so, state tutti intenti
a nuotare verso spiagge solitarie.
C’è stato un tempo, incipit alla
Ferretti, in cui scrivevo delle cose davvero tristi, pensando, forse, che alla
lunga la tristezza avrebbe pagato; possibile che lo immaginavo come s’immaginano
gli angeli, le principesse o le scope volanti?
Mia madre non mi parlava mai dei
sogni. I suoi li vedevo cadere dagli occhi ogni giorno, fino a quando non si è
messa a piangere tutti i pomeriggi, dopo il caffè.
Avevo tanta timidezza da offrire in
certi pomeriggi, e non passavano mai. Mi sforzavo di parlare bene, al punto che
una ragazza molto più grande di me, avevo quindici anni, con quel suo corpo che
mi annientava, mi disse: ma tu non sei di Gaeta? Ma come, a parte un giorno a Roma
e uno a Napoli, più il giorno della nascita a Formia, non mi sono mai
allontanato da questo posto; insistendo: è che non sembra, parli bene, senza
accento. Per me equivaleva a una pomiciata. Che non c’è mai stata. Come con
quella roscia, anche lei più grande di me, che mi carezzava ogni volta che la
incrociavo per strada. Mi faceva svenire. Una volta, durante questi sfregamenti
discreti, presi un cazzotto da un delinquente del paese: era ubriaco e mi
chiese pure scusa! Stordito, sono scappato a casa a farmi una pippa. Che non si
sa mai, dovesse svanire l’effetto della roscia, pensai con tutto il dramma di
quegli anni. Malati di adolescenza, quegl’anni scorrevano a tremila verso fughe
pianificate a gambe all’aria dentro un letto unto di formica beige. Maledette
gambe all’aria, ci volevano piedi a terra e ragazze d’amare tutte le mattine.
Eh! Ci voleva sicuramente una voce dolce e potente a sbarrare le mie brame,
d’immagini in bianco e nero da colorare.
Oggi nel mio quartiere periferico e
un po’ paesano, appena fuori dal pianeta Roma, mi era parso di vedere persone
di Gaeta che conoscevo, vagare sognanti anche loro. Una leggera dissociazione
d’amore per un passato che resta sempre parallelo, nella sua giusta e
irrevocabile distanza di rabbia, dal mio migliore presente possibile.
Questo mi ha raccontato stasera Antonio,
poco prima dell’aperitivo, davanti alla piazzetta brulla dietro casa mia; più
in là, oltre il marciapiede che chiude a ferro di cavallo tutto il circondario,
c’è l’enorme vallata di fabbriche a tinta unita che galleggia prima della tanta
pioggia agognata.
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