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sabato 7 aprile 2012

intervista a nadia terranova



foto di claudio muolo

Appena finito di leggere questo libro mi è presa la smania di farlo leggere a più persone possibili. Un’urgenza di far conoscere questa storia fantastica di un bambino magicamente reale. Cosa ti ha spinto a pensarla, e poi a scriverla questa storia? Da subito hai pensato a una forma di libro con testo e illustrazioni?

Quando ho letto per la prima volta Le botteghe color cannella, quasi dieci anni fa, ho provato un’empatia tale che poi quel libro mi ha accompagnato sempre, in riletture periodiche, ne conosco interi passi a memoria. Sapevo di voler omaggiare Schulz e per alcuni anni ho tenuto un blog dedicato a lui. Poi un giorno avevo appuntamento con Fausta Orecchio di Orecchio Acerbo per parlare di proposte editoriali e la storia di Bruno bambino se ne stava lì da qualche parte,  pronta a venire fuori. A Fausta è piaciuta subito perciò sì, quando mi sono messa a scrivere mi era chiaro che sarebbe stata una storia illustrata, anche se non sapevo da chi.

 C’è una descrizione nel libro in cui Bruno cerca di capire la maniera migliore di imitare il padre. Un dilemma antico e attuale dentro cui ci si misura per crescere, per poi tentare una qualche emancipazione, a volte anche con dolore, dall’ambiente di provenienza. Hai sviluppato questa idea pensando più alla biografia di Bruno Schulz o ai suoi racconti? C’è spazio, se lo credi opportuno, a una terza ipotesi.
C’è tutto, ma davvero un tutto strabordante, nei suoi racconti. Un padre visionario e  filosofo, un figlio timido e solitario: c’è spazio per immaginare un rapporto fatto di inibizioni e imitazioni. Le biografie sono molto più noiose, basti paragonare un semplice “il padre, Jakob, morì nel 1915” con “A quel tempo mio padre era ormai morto definitivamente. Era morto molte volte, mai completamente, sempre con certe riserve, che costringevano quel fatto a una revisione. Il che aveva il suo lato buono. Sminuzzando così a rate la morte, mio padre ci aveva familiarizzato con la sua dipartita”. Schulz ci regala un materiale immaginifico pazzesco. E ovviamente c’è tanto di me, altrimenti questo materiale non mi solleticherebbe.


Ho intravisto dietro alla storia di Bruno, anche per deformazione professionale, tante storie di bambini diversi, unici, incontrati nelle mie esperienze di lavoro; con cui ho condiviso anche momenti amari, ma, in quasi tutti i casi, sono rimasto sospeso con la curiosità d’immaginarmeli da grandi. Sperando sempre il meglio per loro, anche illudendomi. In “Bruno” mi ha commosso l’idea che un riscatto possa partire da una matita per arrivare, attraverso un volo liberatorio sulla terra appena devastata dalle follie naziste, con uno sguardo di una bambina curiosa. Farla terminare “bene” è stata un’esigenza di genere o un modo di riscattare, anche stavolta con matita e terranova, un artista misconosciuto? Nel senso di mantenerlo in vita, in volo sopra le nostre teste, oltre pure tutti i tuitt che ci sovrastano?
Non avevo l’esigenza di un lieto fine quanto piuttosto di una catarsi. A volte la catarsi può coincidere con un finale amaro o tragico (pensiamo a Incompreso) ma in questo caso era necessaria una rinascita: Bruno vola perché crea, ma vola soprattutto perché qualcuno lo legge, lo ama, lo fa rivivere attraverso ciò che di più potente ci ha lasciato, i suoi scritti e disegni. E magari si ispira anche a lui per nuove storie. In questo senso sì: matita e terranova, molto umilmente.
(Colgo l’occasione per esprimerti la mia stima per il tuo lavoro).

 Mi è piaciuto l’esser stato rapito dall’equilibrio tra malinconia e vitalità che il personaggio Bruno emanava in questo libro. Da lì a un giorno il tutto si è trasformato in curiosità verso Schulz artista/uomo/mito.  Mi racconti cosa invece è capitato a te durante l’impatto con Bruno Schulz?
Complimenti per il libro, davvero complimenti.

Grazie. E grazie per aver attraversato questa storia con occhi curiosi e attenti.
Mentre leggevo Bruno pensavo che scrivere così ha del soprannaturale. Sarà anche merito della bellissima traduzione di Anna Vivanti Salmon, ma davvero ogni frase è una vittoria sulla bruttezza. E poi pensavo che sapevo qualcosa, di quel nascondersi e disvelarsi, di quello scrivere per stupire e vivere nascondendosi. In questo mi sono sentita, da subito, come Bruno. E gli sono grata per averlo detto in un modo che io non saprò mai eguagliare.


installazione di Claudio Muolo







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