Il personaggio che ci narra la storia
non prova rimorsi o rancori, a parte un po’ con Dio ogni tanto, ma vive, e qui
la Parrella secondo me dipinge benissimo il carattere, l’esperienza della
disabilità a modo suo, in equilibrio tra affetto e dolore, senza cadere o
scappare; ci racconta il suo affetto attraverso uno sguardo lucido venato di
simpatia che poi culmina nel dialogo tra i due all’interno del pub Behave, che
dà il titolo al racconto.
Nel mezzo della storia c’è la morte
della moglie, che sta nel mezzo solo nel filo narrativo, poiché la morte c’è già
stata e probabilmente ha contribuito a rendere la narrazione a tratti malinconica,
e non per questo pregiudica quella dignità che dà il ritmo alla storia. A un
certo punto il suo sguardo obliquo si sposta sulla città che si sta trasformando
mangiandosi il passato, e questo gli procura un po’ di scoramento che poi
diventa una stoccata un po’ nostalgica contro la modernità, gli architetti e
giù di lì. sullo sfondo la Liverpool che non cè più. Il figlio risponde con un atteggiamento fresco di persona attaccata
alla vita, quindi pronta al cambiamento. Credo sia la miglior risposta che un
genitore possa aspettarsi da un figlio che cresce, nonostante gli inciampi, e vede solo verde davanti a sé. Poi c’è la sua
capacità di fiutare chi è vivo o chi è morto, osservando le persone che
transitano davanti alla panchina, dove sosta assieme al suo amico, appare un
tentativo di considerare l’umanità in base a quello che fa, e non a quello che
pensa o dichiara. O cerca di mostrare goffamente. Le sue lapidarie valutazioni
sono una sorta di lotta contro il conformismo e l’ipocrisia, la stessa che ci
ammazza in certe serate, e in certi ambienti che subiamo.
Infine narra di una stretta al
braccio atrofizzato di un africano assiderato nel canale di Sicilia, che arriva
come un pensiero sempre evitato. Come la morte, come la vita per quello che è per
davvero, che il dialogare tra il padre e il figlio ci trasmette nell’ultima
immagine del racconto.