La stanza con le
tapparelle abbassate è luminosa. Sdraiato e scomodo, ti guardo il collo
scoperto mentre le scarpe restano sospese nell’aria per alcuni secondi, poi
s’immolano pesanti sul cotto scurito dagli anni, e il tuo sospiro accelera
incauto. I corpi si schiacciano tra il muro e il letto a una piazza, le
lenzuola definitivamente a terra. Una stampa di Van Gogh mugugna sbilenca. Le
mani, quelle mani che hanno sfiorato l’umido tra le gambe ora penetrano la
pelle per sentirne il gusto tossico. Intanto le tue labbra gonfie di stupore
baciano tutta la pelle per ridurne la febbre: i seni pogano silenziosi.
Amore, la prima
volta che ti ho vista eri una canzone.
Le cuffie,
quelle mostruose e rosse degli anni ’90, ti avevano già da un pezzo sussurrato:
questo è l’inverno che ci consola.
Nella casa
affollata di studenti, pensieri e alimenti rubati alla Coop, ci sono due corpi
in lotta per l’amore eterno, quello dei libri, o quello dei nonni, poco importa
oggi ai nostri muscoli in festa.
Da dentro a una
foto in bianco e nero su di un letto di vimini obliquo, dove ti sdrai per il
mio sguardo, dichiari muta: tranquillo, che un filo di solitudine vale una vita
di carezze. Lo sappiamo e per questo lottiamo, e si sente nell’aria il vento di
un piacere intermittente.
1 commento:
bello e bellissimo il pezzo su Taccuino
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