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mercoledì 21 agosto 2013

come si misura il ricordo?

Ieri mi sono deciso ad aprire il baule arrugginito. Mi ero dimenticato che era rimasto lì, appiccicato alla parete di legno della nostra casetta di campagna, immobile, dall’ultimo dei nostri traslochi: otto anni fa. Contiene i miei diari scritti dalla metà degli anni ottanta alla fine dei novanta. Ci sono anche foto in bianco e nero stampate da me, raffiguranti scene di pesca con mio padre e strambi personaggi locali; c’è una coppia di amici ritratti nella loro casetta bohemien, e ancora, E. statuaria e muta; poi immagini ingenue, alcune irriconoscibili dalla muffa, e sono a colori e sono le prime foto che ho scattato: somigliano a quelle che fa in questi giorni mio figlio piccolo.
Diapositive di vacanze o di tentativi di creatività diversa. Nel baule c’erano quotidiani che in copertina mostravano fatti clamorosi dei primi anni ’90: bombe mafiose, elezioni perse, e altre cose urlate di fermenti di quegli anni. In un ritaglio del Manifesto c’è Stefano accanto a una bandiera del PDS, il giorno dopo la nota sconfitta della macchina da guerra. C’erano pure documenti vari: irate lettere di dimissioni a direttrici di lavoro pazze, e bollette, e libretti postali con ottomila lire, passate da un giorno all’altro da tre milioni a questa misera cifra. Anche una locandina di un Festival (?) di musicisti di metro organizzato da noi, presso La Tenda. Tra le cose più commoventi il libro-archivio che la maestra Nardone ci consegnò in quinta, che contiene tutte le cose importanti fatte in quel percorso: una mia intervista a mio padre, operaio di piastrelle; le tante gite raccontate, e i resoconti di pronto soccorso, anche poesie e altre cose fatte con assoluta libertà, che la ponevano un po’ più in là della Montessori.




Osservare le infinite cose scritte da me su quaderni, agende, block notes, foglietti sparsi di quando facevo il cameriere, e vedere all’improvviso tutte quelle pagine scritte mi hanno lasciato addosso dello stupore e interrogativi condannati a non avere mai più risposte. Ho scritto una quantità impressionante di deliri sognanti e non, lagne poeticanti e lettere - spedite e non spedite - d’amore per E., sofferte, per le mie improvvise mattate di gelosie o giù di lì. E poi una lettera in cui chiudo una lunga litigata con A.: verso la fine dell’epistola deliro che sembro uno scolaretto dispettoso in libertà temporanea. Lettere di mia madre, che mi spediva quando facevo il cameriere a Campiglio, e dal tono che usava pareva invece che fossi al fronte, sul Piave, a combattere gli austriaci e non a servire panini ai rampolli viziati della prima lega padana.
 


Quello che imbarazza oggi la mia coscienza non è il grado di follia amorosa che toccavo in quei pomeriggi annoiati, e neppure le ingiurie moraliste contro alcuni amici d’allora, o per le foto di scarsa qualità, no, quello che mi fa vergognare sono gli errori ortografici! Alcuni reiterati fino al ’96: sopratutto, un’istinto, hai tuoi occhi, …refusi replicati? Macché, semianalfabetismo puro. Eppure leggevo: Breat Ellis; Ben Jelloun; Vassalli; Pasolini; Campana, e tanti altri che divoravo come seni stracolmi di nutrimento per la mia storia affamata. Ho scoperto Moravia a Rimini, leggendo i suoi racconti in una camera d’albergo, mentre io facevo l’animatore per il soggiorno degli anziani che pagava il comune di Roma, che a sua volta pagava me tramite la cooperativa, insomma, in quei giorni di scrocco del ’93, leggevo Moravia e lo scimmiottavo scrivendo raccontini fulminei di donne malinconiche e di uomini alienati, che genio che ero, no? In realtà, per non massacrarmi senza fini di lucro, devo ammettere che venivo da periodi incasinati di malattie altrui che per almeno mezz’ora la settimana diventavano mie. Non sazio, mi sono messo pure a lavorare nel sociale: tossici, carcerati, bambini in fuga, barboni, e altre categorie di sfigati peggio di me. Senz’altro stavano peggio di me, poiché io in fondo avevo un gran vantaggio: mi muovevo tantissimo. A pensarci, come avrei fatto a evitare il crollo che mi seguiva sempre come fiato sul collo senza spostarmi in continuazione tra amici e città, ce l’avrei fatta? Oggi posso riconoscermi un merito - leggendo quelle pagine ingiallite e rosicchiate dai topini di campagna - per alcune frasi illuminanti e per degli incisi rivelatori simili in cose scritte in questi ultimi tempi, nel pieno della mia lucidità di quarantenne. Alcuni pezzi che ho scritto allora mi lasciano senza fiato, mi scuotono e fanno pensare che non è mai troppo tardi è un detto da sfruttare fino alla fine. Scopro che alcune mie idee di oggi erano già pronte allora, così come certe taglienti e originali posizioni nei confronti del contesto amicale, così come di fronte al’immenso palcoscenico culturale che mi schiacciava: erano lì sull’uscio, pronte a farsi apprezzare per la loro cruenta onestà. Ma non uscivano del tutto, se ne vedeva solo la coda, qualche pelo e poco altro di autentico. Il caro Pasolini mi aveva intossicato la testa con la sua pomposa prosa ideologica, e poi c’erano tutti quegli intellettuali sempre schierati che mi avevano imprigionato come una mummia di frasi fatte e di slogan già deboli allora.

Tutto questo trambusto vissuto cosa importa adesso? se non che ieri non ho avuto il coraggio di bruciare tutto? Avrei cancellato ogni traccia di come mi rappresentavo in quegli anni giovanili. Poi, venendo fuori da uno strisciante malessere, ieri ero davvero pronto a saccheggiare e incendiare il mio passato sperando di restituire al presente una faccia più serena, un corpo meno incurvato e una testa nuova di zecca per aggredire qualche futuro alle porte: sfoderare l’ultimo attacco in stile alle mie paure.

Niente, poi ho conservato tutto in scatole di cartone. E stamattina la mia faccia barbuta testimonia un coraggio che fa arrossire il mio passato. A breve, a richiesta, leggerò pezzi dei miei adolescenziali diari, intervallati da lunghe e singhiozzanti risate di liberazione. Prenotatevi.

Qualcosa ho buttato: un mio ritratto a tempera, brutto assai, che mi fece un tipo antipatico. Foto oscene che scattai a Milano, al Sicof, che mi vedeva superficiale e allegro in misura eccessiva, come se recitassi troppo male anche quell’evanescente parte che mi ero scelto allora. Ho cestinato anche le infinite bollette della Findomestic: vera persecuzione dei miei anni passati.

Avrò saldato il debito?



 

1 commento:

Capitan vongola ha detto...

ahahahah. Una boccata d'aria...e leviamoli 'sti scheletri dall'armadio!