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sabato 31 maggio 2014

Intercity, giorno.

Il treno parte alle nove. Un intercity. Intanto l’autobus numero quattordici si offre, sbuffando, di farmi arrivare in tempo fino a Milano. Fa un freddo che non conosco. La città non mi sembra rinascimentale, soltanto fredda, e forse io non sto tanto bene. Leggo “Il giovane Holden” e non rispondo al telefono: almeno dieci chiamate senza risposta. Ieri sera mi sono studiato la cartina di Milano. So con precisione il prossimo tragitto casa-lavoro-casa che mi aspetta. Il numero delle fermate: venti. Una frenata improvvisa dell’autista mi fa alzare gli occhi sulla strada. E’ piena di giapponesi e giacche di pelle appese davanti ai loro occhi.  Un bimbo accanto alla bancarella ha gli occhi spalancati e la bocca serrata, sta per piangere ma, chissà, forse non lo farà oggi. Queste cose ai miei occhi sembrano un gancio, una stretta forte. La felicità. Canto in mente la canzone e sto per piangere. Ma guarda un po’, piangere, a vent’anni, sul numero quattordici, poco prima delle nove. Utilizzo tutti questi numeri per cercare una cifra, uno stile, un urlo rotondo per scendere di corsa dall’autobus arancione. No, non se ne parla, perché il lavoro è importante e non posso campare facendo il lavapiatti, restando iscritto all’università, sono già sei anni, e a dieci esami dal traguardo. Non rispondo al telefono. Nemmeno scambio lo sguardo con la ragazza mora dagli occhioni neri, truccata benissimo, dirimpettaia d’autobus. Davanti a me vedo solo la prossima stanza quadrata d’ufficio con una sedia vuota davanti al monitor: che aspetta indifferente un culo nuovo. Il libro mi spaventa. Non vedo laghetti ghiacciati ma sento dei dialoghi nevrotici tra i miei afflitti organi. Fa freddo. Eccola la stazione: appare all’improvviso come una dimenticata caserma. Le vado incontro pensando al palazzo dei fantasmi di quando ero piccolo, e di come riuscivamo a entrarci nonostante il terrore tra le mani, che si stringevano con le dita al buio. Qui sono solo. Un fiume nero di persone: mi vengono incontro artisti con tele vergini sotto al braccio, e ragazzi con chitarre a tracolla, e laggiù ragazze sorridenti poco prima del mazzo di fiori. L’androne è smisurato: in fondo devo solo passarci per arrivare al treno. L’architetto della stazione forse pensava che ci sarei arrivato con i cavalli e le giraffe? Mancano dieci minuti. Mancano le forze.

Un lungo fischio che sembra l’intro di un pezzo brasiliano mi fa sedere contento sull’Espresso per Napoli. Il gioco dell’oca l’ho sempre preferito al monotono monopoli.

Reale albergo dei poveri, Napoli.
Foto di Mimmo Jodice



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