Questo racconto un po’ dolente si fa
leggere che è una meraviglia. Sarà che il dolore, una volta digerito e
masticato per notti intere, a volte si trasforma lieve in pieghe sotto gli
occhi, in smorfie dolci, ma ti lascia lo stesso guardare in faccia da tua
moglie o dagli amici il giorno dopo, senza disperare; magari contribuendo ad
alimentare quell’attaccamento ai preziosi dettagli dei giorni. Sì, qui volevo
arrivare, a confessare come dentro al racconto “Gli uccelli”, Bruno Schulz,
riesca a narrare le gesta del padre tra sbattimenti di ali e afflizioni di uomo
in declino, come se fosse, in fondo, solo una scena da consegnare alla storia. Certo,
si percepisce sia la sconfitta del padre davanti alla giovinezza castrante di
Adela, che la sua (loro) di fronte all’impotenza che procurava la delega
disciplinare alla dura governante. Tutti quegli uccelli innamorati sul tetto
volevano apparire come una forza oscura da reprimere? Sicuramente, da
condannare da parte della società. Con gli uccelli che volano via si spegne
quell’alleanza tra il bambino e il padre, segreta e profonda, di appartenersi
dentro quei gesti sognanti. Quel filo spinato e faticoso che s’intreccia spesso
nei ruoli dentro le famiglie, rischiando di far implodere ogni legittimo
sentimento in granelli d’incomprensioni amare. Di silenzi imperdonabili. Le
pulizie frenetiche e rigorose di Adela rimettono tutto a posto. In fondo, anche
Jakob, e tutta la sua bizzarria, s’inchinano davanti alla disciplina della
terra e dei suoi fedeli servi. Troppi slanci fanno perdere il senso della
storia, non di certo di questa raccontata da Schulz, che appare nitida e
onirica allo stesso tempo; poiché bisogna considerare e rispettare anche la
disciplina eterea prodotta da scrittori sensibili e universali.
Nel racconto “Nemrod”, un cagnetto
piombato dalla periferia - quante cose improvvise e sconvolgenti porge la
periferia al centro sonnacchioso - con i suoi modi buffi e nel suo
disorientamento da cucciolo strappato al seno materno, trasmette nelle sue
movenze tra passi minacciosi e spazzoloni inquietanti, sentimenti di antichi
adattamenti, recenti abbandoni. La descrizione è calda di dettagli, seppur
incorniciata in un quadro domestico comune che, invece di appiattire il
racconto, lo agita e lo proietta nel suo spaziare per la casa, verso certe
stanze nascoste dell’anima. Un’affinità tra la condizione del cane e quella
dell’uomo, nei momenti traumatici di passaggio, come le separazioni o gli
abbandoni improvvisi, che ci costringe a riflettere sulle conseguenze di gesti
affrettati che rischiano di condizionare un’intera vita. Salvo concludere che,
laddove avvengano queste sciagure, possa esserci un ambientamento che a sua
volta possa sviluppare altre modalità di cambiamento, o altre salvezze terrene.
I racconti de “Le botteghe color
cannella” sono densi e profumano d’impressioni, colori, che ci spingono verso
un mondo nuovo. Quello raccontato da Schulz con descrizioni venate d’ironia che
mettono ancora più in evidenza l’amaro che serpeggia tra le parole. Ci sono
tante immagini cariche di fantasia che contengono un’armonia perduta,
recuperata allo scadere da racconti che mirano a fissare per sempre certi
ricordi, certi personaggi. Ora leggerò tutti gli altri racconti, diventa
necessario oggi.
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