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giovedì 22 marzo 2012

il secondo e il terzo



Questo racconto un po’ dolente si fa leggere che è una meraviglia. Sarà che il dolore, una volta digerito e masticato per notti intere, a volte si trasforma lieve in pieghe sotto gli occhi, in smorfie dolci, ma ti lascia lo stesso guardare in faccia da tua moglie o dagli amici il giorno dopo, senza disperare; magari contribuendo ad alimentare quell’attaccamento ai preziosi dettagli dei giorni. Sì, qui volevo arrivare, a confessare come dentro al racconto “Gli uccelli”, Bruno Schulz, riesca a narrare le gesta del padre tra sbattimenti di ali e afflizioni di uomo in declino, come se fosse, in fondo, solo una scena da consegnare alla storia. Certo, si percepisce sia la sconfitta del padre davanti alla giovinezza castrante di Adela, che la sua (loro) di fronte all’impotenza che procurava la delega disciplinare alla dura governante. Tutti quegli uccelli innamorati sul tetto volevano apparire come una forza oscura da reprimere? Sicuramente, da condannare da parte della società. Con gli uccelli che volano via si spegne quell’alleanza tra il bambino e il padre, segreta e profonda, di appartenersi dentro quei gesti sognanti. Quel filo spinato e faticoso che s’intreccia spesso nei ruoli dentro le famiglie, rischiando di far implodere ogni legittimo sentimento in granelli d’incomprensioni amare. Di silenzi imperdonabili. Le pulizie frenetiche e rigorose di Adela rimettono tutto a posto. In fondo, anche Jakob, e tutta la sua bizzarria, s’inchinano davanti alla disciplina della terra e dei suoi fedeli servi. Troppi slanci fanno perdere il senso della storia, non di certo di questa raccontata da Schulz, che appare nitida e onirica allo stesso tempo; poiché bisogna considerare e rispettare anche la disciplina eterea prodotta da scrittori sensibili e universali.
Nel racconto “Nemrod”, un cagnetto piombato dalla periferia - quante cose improvvise e sconvolgenti porge la periferia al centro sonnacchioso - con i suoi modi buffi e nel suo disorientamento da cucciolo strappato al seno materno, trasmette nelle sue movenze tra passi minacciosi e spazzoloni inquietanti, sentimenti di antichi adattamenti, recenti abbandoni. La descrizione è calda di dettagli, seppur incorniciata in un quadro domestico comune che, invece di appiattire il racconto, lo agita e lo proietta nel suo spaziare per la casa, verso certe stanze nascoste dell’anima. Un’affinità tra la condizione del cane e quella dell’uomo, nei momenti traumatici di passaggio, come le separazioni o gli abbandoni improvvisi, che ci costringe a riflettere sulle conseguenze di gesti affrettati che rischiano di condizionare un’intera vita. Salvo concludere che, laddove avvengano queste sciagure, possa esserci un ambientamento che a sua volta possa sviluppare altre modalità di cambiamento, o altre salvezze terrene.

I racconti de “Le botteghe color cannella” sono densi e profumano d’impressioni, colori, che ci spingono verso un mondo nuovo. Quello raccontato da Schulz con descrizioni venate d’ironia che mettono ancora più in evidenza l’amaro che serpeggia tra le parole. Ci sono tante immagini cariche di fantasia che contengono un’armonia perduta, recuperata allo scadere da racconti che mirano a fissare per sempre certi ricordi, certi personaggi. Ora leggerò tutti gli altri racconti, diventa necessario oggi.



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