Mi ero fissato
che dovevo fotografare Nanni Moretti. Non per caso, per strada o a una
presentazione, ma ero intenzionato proprio a fargli dei ritratti in bianco e
nero, magari nel cinema suo, con tanto di posa. Telefonavo alla produzione e
loro, gentilmente, mi assicuravano che da lì a poco avremmo fissato
l’appuntamento con Nanni, così dicevano. Era il tempo di “Caro diario”, e io ne
aspettavo l’uscita così come aspettavo anni prima una ragazza, sulla mia
vespetta bianca special, verso la fine dei miei anni ottanta. Inutilmente. Continuavo
ad aspettare anche la chiamata della gentile segretaria. Inutilmente. Poi mi
sono stancato di aspettare. Cominciavo ad avere l’impazienza dei pigri: giravo
a vuoto, cambiavo facce e lavori; ma che gusto a chiudere in faccia le porte
dei lavori, dietro lasciavo le facce attonite dei padroni, lì dove cercavo
padri, fratelli, e altre amenità esistenziali, spesso trovavo sfruttamento
travestito da pietà.
E
l’idea dell’attesa evapora ora con tutte le insicurezze di quegli anni, verso
uno dei tanti anni che ancora devo abitare.
Non ho mai avuto
bisogno di conoscere tutto: i film che uscivano, i nuovi gruppi musicali o i
libri da leggere assolutamente. Mi
bastavano quelli scelti da me, che
consistevano nella produzione artistica di una decina di personaggi da scrutare
e ammirare fuori da ogni moda, e da ogni condizionamento generazionale. Questo un
po’ mi è costato. Oggi manco di quei contenitori di riserva, di cultura e di
conoscenza, che molti dei miei contemporanei utilizzano come succedanei ai loro
vuoti esistenziali inconfessabili. Anche se a volte questi funzionano. Per me
invece ha funzionato la speranza, questa parola incrostata di fede e
sentimento, che spesso compariva accanto a me sulle panchine d’inverno, quelle
delle piazze vuote di città, e il marmo che mi paralizzava il culo era un
toccasana al confronto del freddo improvviso di quel mio presente. Vivevo
quegli anni come se fossero di passaggio, che prima o poi le cose sarebbero
cambiate, tutto sarebbe stato più chiaro: la vita ricominciava.
Mi ero fissato
di voler fotografare Moretti perché lui era tra quelli che aveva ricominciato. Uno
specchio deforme tra me e lui.
Mi attaccavo a
quei personaggi che stavano lì lì per esplodere e, seduti scomodi sulla prossima
deflagrazione, davano la beata impressione di una ferrea volontà a non tornare
più indietro.
In quel periodo succedeva che quando mi
venivano a trovare gli amici a Roma, nei primi tempi che abitavo a
Casalbruciato, spesso, invece di imboccare la tiburtina verso il centro, li
facevo svoltare a destra verso la periferia. E loro mi sfottevano. Adesso capisco
il mio voler mostrargli un limite, di città, e della mia personalità in crisi.
Non stavo a Roma tanto per, ma per
necessità; non lavorativa, no, cari miei, stavo a Roma per sbrigare faccende
irrisolte della mia storia, non a caso sono andato a fare un corso per
operatori sociali, no, proprio perché tutto ruotava intorno al mio candido vuoto.
Lo sapevo, ma mi ostinavo a camminare sul bordo del cratere illudendomi che
evitando l’incandescenza del momento, avrei imparato a sopportare la lava del
futuro. Una cazzata! Almeno ci ho provato, e quella lava ancora oggi la
utilizzo per evitare il ridicolo e dare il meglio nonostante tutto, e
nonostante il fiatone che ciclicamente viene fuori, dopo faticose esperienze di
lavoro (vita stretta con gli altri).
Comunque in quel tempo non
disperavo mica, anzi, mi divertivo tra concerti e cazzeggi urbani, e
vagabondaggi per l’Italia sempre col sorriso fresco in faccia, contagioso
ancora oggi, ma ora bisogna ammettere che andava completato qualcosa che mai
nessuno aveva avuto il coraggio di dirmi: completa il quadro, limita le
possibilità.
Avevo bisogno di
una tela e di un confine, di un ragno e di una bomba.
Avevo bisogno di
chiacchierare fino in fondo, fin dentro al cratere dovevo spingermi.
Tratto da
“Riportando tutto a casa”:
I cambiamenti scavano la fossa al vecchio
mondo in modo che il suo crollo sia spesso molto silenzioso. E’ così che
cambiano gli uomini – una smorfia, uno scatto di nervi, una parola al posto di
un’altra parola -, è così che da un momento all’altro noi non siamo più noi
stessi.
Ascoltate questa canzone se vi va, ma non la abbandonate alle prime note "mi sembra De Andrè, son fighetti", no, vi prego, senza pruriti di testa. E fatemi sapere, sempre se vi va...
1 commento:
Che dire? Mi viene solo una frase stramaciullata ma efficace: un salto di qualità! Che piacere leggerlo, nel contenuto e si, nella forma, arrabbiata, vera, crudele. Bravo Peppe, mi mandi a letto con una cosa bella in questo 20 febbraio!
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