Il treno parte alle nove. Un intercity. Intanto l’autobus numero
quattordici si offre, sbuffando, di farmi arrivare in tempo fino a Milano. Fa un
freddo che non conosco. La città non mi sembra rinascimentale, soltanto fredda,
e forse io non sto tanto bene. Leggo “Il giovane Holden” e non rispondo al
telefono: almeno dieci chiamate senza risposta. Ieri sera mi sono studiato la
cartina di Milano. So con precisione il prossimo tragitto casa-lavoro-casa che
mi aspetta. Il numero delle fermate: venti. Una frenata improvvisa dell’autista
mi fa alzare gli occhi sulla strada. E’ piena di giapponesi e giacche di pelle
appese davanti ai loro occhi. Un bimbo
accanto alla bancarella ha gli occhi spalancati e la bocca serrata, sta per piangere
ma, chissà, forse non lo farà oggi. Queste cose ai miei occhi sembrano un
gancio, una stretta forte. La felicità. Canto in mente la canzone e sto per
piangere. Ma guarda un po’, piangere, a vent’anni, sul numero quattordici, poco
prima delle nove. Utilizzo tutti questi numeri per cercare una cifra, uno
stile, un urlo rotondo per scendere di corsa dall’autobus arancione. No, non se
ne parla, perché il lavoro è importante e non posso campare facendo il
lavapiatti, restando iscritto all’università, sono già sei anni, e a dieci
esami dal traguardo. Non rispondo al telefono. Nemmeno scambio lo sguardo con
la ragazza mora dagli occhioni neri, truccata benissimo, dirimpettaia
d’autobus. Davanti a me vedo solo la prossima stanza quadrata d’ufficio con una
sedia vuota davanti al monitor: che aspetta indifferente un culo nuovo. Il
libro mi spaventa. Non vedo laghetti ghiacciati ma sento dei dialoghi nevrotici
tra i miei afflitti organi. Fa freddo. Eccola la stazione: appare
all’improvviso come una dimenticata caserma. Le vado incontro pensando al
palazzo dei fantasmi di quando ero piccolo, e di come riuscivamo a entrarci
nonostante il terrore tra le mani, che si stringevano con le dita al buio. Qui
sono solo. Un fiume nero di persone: mi vengono incontro artisti con tele vergini sotto al braccio, e ragazzi con chitarre a tracolla, e laggiù ragazze sorridenti poco prima
del mazzo di fiori. L’androne è smisurato: in fondo devo solo passarci per
arrivare al treno. L’architetto della stazione forse pensava che ci sarei
arrivato con i cavalli e le giraffe? Mancano dieci minuti. Mancano le forze.
Un lungo fischio che
sembra l’intro di un pezzo brasiliano mi fa sedere contento sull’Espresso per
Napoli. Il gioco dell’oca l’ho sempre preferito al monotono monopoli.
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Reale albergo dei poveri, Napoli. Foto di Mimmo Jodice |