Ho ritrovato mio padre sulla spiaggia
di Anzio. Era diventato un osso di seppia, striato da questi anni di silenzio.
Stavo lì davanti agli scogli, infreddolito, solo, e lontano non vedevo neppure
un’isola: mi sforzavo d’immaginare la sua barca anni cinquanta con quelle reti
scure d’acqua. Sì, potrei raccontare che vendevi il pesce al mercato, e che
restavi ad Anzio circa tre mesi l’anno. E dormivi rimpicciolito nella stiva, e
mangiavi pane e alici fritte. Il vino bianco la sera. Un film la domenica. Gli
occhi sui culi delle donne locali, nessuna avance, era un’epoca strana:
facevate all’ammòr’ ma non ci avete raccontato da dove partiva la seduzione.
Dalla fame? O dal sale o dall’argilla che impastava le tue nere braccia?
Mi sono tuffato e faceva già meno
freddo, l’osso di seppia se ne stava su quegli scogli che morivano davanti a
quella sabbia nera e bollente di ieri. L’osso di seppia aveva il cappello di
mio figlio messo di traverso. Ho nuotato ore e ore fino a stordirmi di sale e
silenzio.
Un anno fa scrivevo come sopra, stasera scriverei come un mostro: nel mezzo mi ascolto questa canzone fresca. Non chiedo più la luna o vette troppo alte per la mia storia, no, solo un po' di sincerità e amici da abbracciare la domenica mattina.
Fanculo le aspettative e il grigio dei tuoi occhi.
Goffredo Parise lo spiegava meglio di me, così: "Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita."
Goffredo Parise |
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