Ripenso al mio lento singhiozzare dopo aver
visto il film La pazza gioia. Non era proprio un pianto classico, poiché fuoriusciva
dalla mia testa un liquido amaro di pensieri e immagini e addii, e stavolta non
riuscivo ad arginarne la portata: era la piccola verità che premeva attraverso
il film. Stavo sulla Tiburtina, era sera, solo in auto, e ogni volta che
prendevo fiato mi ripetevo: è difficile, è difficile. Certe scene del film
avevano graffiato e accarezzato la mia memoria, che quotidianamente tengo a
bada, e che mostro soprattutto nello scrivere e a pochissime persone
rigorosamente selezionate. Nel film ci sono io, c’è mia madre, mia moglie, le
mie amiche, mio cugino, vecchi amici; e tante persone matte, belle e brutte,
povere e ricche, che ho conosciuto negli anni di vita e di lavoro. Soprattutto
c’è quella straniante bellezza di non accusare nessuno per le deprivazioni subite, che nella scena dell'incontro all'ospedate tra Donatella e il padre è incorniciata in maniera struggente. Senza fine. Ecco, questo è davvero difficile da mettere in pratica nelle nostre giornate.
Avevo quindici anni, una mattina come tante
di marzo, un subbuglio nelle stanze, pensieri confusi che riempiono la nostra
casa. Si è deciso di ricoverarla. È colpa tua, incautamente dice zia verso di
me, o chissà, magari era verso quel nulla rimasto appiccicato al lampadario
di gocce di cristallo al centro della stanza da letto anni ’60 dei miei. Così, in quella stanza, io e la mia adolescenza ci prendiamo tutta la
colpa: da lì comincio a cambiare per sempre. La colpa. E’ la stessa che mi ha
portato a lavorare come Educatore nella struttura dove nel film è stata girata la scena drammatica del
Tso. Dieci anni fa era il vecchio reparto dei “residuali manicomiali”,
così era chiamato quel posto abitato da persone con mille tic, che parlottavano
da sole, fumavano mozziconi, sedevano all’ombra accanto ai demoni,
abbracciavano alberi rigogliosi, pisciavano sui muri, e ogni tanto si
prendevano le botte da certi infermieri (li ho visti anche istigati da un
pingue psichiatria barbuto). Ho resistito sei mesi, avevo un contratto a tempo
indeterminato, e durante l’ultimo giorno del periodo di prova mi hanno
licenziato. Mi davo malato spesso, non avevo voglia di stare lì. Eppure la
responsabile mi aveva ingaggiato entusiasta dopo il colloquio, per cambiare le
cose insieme, diceva speranzosa. Dopo un mese mi ha affidato un incarico di responsabilità,
ma il sindacato si è messo di traverso, e io sono rimasto nel limbo a osservare
scene tremendi, a sopportare colleghi ottusi. Il mio periodo basagliano finiva
lì. Poi ho rimosso, ché avevo paura di trattenere nella mente quel buio e
quella miseria umana immobile. Poi è arrivato il film di Virzì e ha svegliato e
rappacificato sentimenti che si pestavano da decenni: ragazzo moro e magro non
è colpa tua! E come fa Donatella Morelli nel film, chiedo soltanto di
rivederlo: lei suo figlio, io il ragazzo che ero.
L’altro giorno mi ritrovo
in un’Asl, dove c’è questa dolce assistente sociale che ha accolto me, le mie parole e l’origine
della mia storia con fare delicato: come se volesse invitarmi a raccontare
senza vergogna quello che è stato. Allora chissà, domani lo racconterò o lo reinventerò; intanto il
prologo l’hai già letto.
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